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GLI SI GETTÒ AL COLLO E LO BACIÒ.Il Padre perdona i due figli e fa festa con loro


Meditazione sulla parabola del figliol prodigo. Dal libro di Andrea Mardegan  IL SACRAMENTO DELLA GIOIA. PREPARARSI ALLA CONFESSIONE MEDITANDO IL VANGELO (2011) 


Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla (Lc 15,11-16).
La storia del peccato comincia così, col rivendicare l’autonomia da Dio Padre, non più come figli preoccupati dell’eredità familiare (la Chiesa, il regno dei cieli), ma come dipendenti ansiosi di liquidazione. La vita che ci è stata donata diventa superbia della vita: vivo, dunque ho diritto alla mia parte di patrimonio. Ma con questo atteggiamento non si riesce a perseverare a lungo nell’amicizia con Dio, si sta a disagio nella sua casa: dopo non molti giorni ce ne andiamo via, non senza aver prima raccolto le poche cose a cui siamo attaccati. E le poche cose finiscono presto.
Allora si cerca aiuto. Ma non dal Padre: c’è ancora la voglia di autonomia, l’orgoglio di fare di testa propria. Cerchiamo aiuto dal primo venuto. Che invece di aiutarci ci sfrutta: ci fa pascolare i porci senza stipendio. <<Puoi mangiare tutto quello che vuoi, come nel giardino dell’Eden, ma devi prenderlo con le tue mani>>. Lavorava e non mangiava; chiedeva carrube, e invece le buttavano ai porci. <<Vattele a prendere, buttati nel fango. Non pensare di essere diverso da loro!>>. Ma i porci mordono e lui ha paura. Loro ingrassavano e lui dimagriva. Si sta male in compagnia del peccato, si è soli!

Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre (Lc 15,17-20a).

 I maltrattamenti e gli stenti gli ricordano la casa del Padre. Non ha il coraggio di rivedersi lì come figlio, non pensa che sia possibile. Il confronto è con i salariati. Quelli sì che hanno il salario, e in aggiunta pane in abbondanza, senza controlli fiscali, segno di magnanimità del padrone di casa. Vitto, alloggio e stipendio. <<Mi alzerò>>. Occorre alzarsi, reagire, smuoversi dal proprio cantuccio, dal luogo del peccato, che ne è pure l’occasione. Così funziona la conversione del cuore sotto l’azione dello Spirito santo. Gli dirò: Padre ho peccato verso il Cielo e davanti a te. Il peccato è sempre in primo luogo nei confronti di Dio, e ha conseguenza di frattura nel rapporto con gli uomini. Non sono più degno del nome di figlio; perché non sono più figlio. Trattami come uno dei tuoi operai. Si alzò e tornò da suo padre. Occorre partire, mettere in pratica il proposito, non pensarci più a lungo. Approfittare della fame, del freddo, del disagio; coltivare nella mente il ricordo della casa del Padre con le sue luci, il suo calore,  i suoi cibi e le sue feste. E incamminarsi verso casa.
 Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa (Lc 15,20b-24).
 Ancora sei lontano e il Padre già ti vede e ti aiuta. Ti corre incontro. Tu cammini stanco perché sei sfinito e titubante; lui invece corre, ti si getta al collo e ti bacia. Da giorni stai pensando a quella frase, la reciti e la ripeti mentalmente – Padre, non sono più degno di essere figlio, trattami come un servo… – ma tuo Padre non ti lascia finire. Non riesci a dirlo perché tuo Padre ha già chiamato i garzoni per rivestirti a festa, come il più amato dei figli. I servi, con i loro gesti, ti dicono che sei il più amato dei figli. Il vestito più bello, l’anello al dito, i calzari ai piedi. Il Signore Gesù fa sfoggio di parole umane e di immagini e di cose della vita per spiegarci la festa del ritorno a casa, la festa del perdono. A ben vedere, non c’è neanche perdono in senso stretto, non c’è la parola o il gesto, sarebbe troppo poco; c’è la sovrabbondanza commossa dell’amore ritrovato. C’è nel piccolo figlio il pentimento e il ritorno; nel Padre c’è la gioia del figlio ritrovato. Il peccato non è nominato se non nel pentimento del figlio, il Padre non ne fa menzione, il peggio è passato, e il passato è dimenticato. Prevale la festa. Se il Padre dimentica anche il figlio deve dimenticare. Un ricordo non deve turbare la festa: metterebbe ombra. E il vitello deve essere grasso. Tutto quel grasso che cola esprime a modo suo l’amore sovrabbondante – infinito, ineffabile – del Padre, per il figlio ritrovato.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso (Lc 15,25-31).
Anche quella del figlio maggiore è una storia di peccato e di conversione. Anch’essa comincia da lontano, da un lavoro nei campi con il cuore preso da se stesso e lontano dal padre e dalle sorti della propria casa. Con rancore verso quel fratello che lo ha lasciato solo a faticare nei campi. Doppio lavoro. Inoltre coltiva da tempo, dentro di sé, la convinzione di essere stato messo da parte, di non contare nulla, di non poter decidere qualcosa di importante per l’azienda del padre. Tornando a casa subito si insospettisce, non gli va l’aria di festa, perché lui lavora senza festa nel cuore. Per di più è una festa decisa senza il suo consenso, alle sue spalle. Chiama un servo, perché non ha facilità a parlare con il padre. La comunicazione vera è da tempo interrotta perché interiormente lo critica: sempre là ad attendere che torni quel figlio dissoluto, e io chi sono? Il padre, che non fa preferenze tra i figli, si rende subito conto che non è a cena e già è passata l’ora del suo abituale ritorno. Esce per scrutare l’orizzonte, e lo scorge impietrito nella sua ribellione testarda. Corre incontro anche a lui. Lo prega di entrare. Lo aiuta a sputare il rospo: <<Non mi hai dato mai un capretto>>. Ecco, il dialogo è ricominciato.  Non è ancora giunta la conversione del cuore, le parole del figlio maggiore a suo padre sono dure, di accusa. Ma finalmente le ha dette! Si è aperto, ha rotto la solitudine, ha esposto il suo problema e dà così la possibilità a suo padre di medicare la ferita del suo peccato con la misericordia.

Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,31-32).
Come sono belle le parole con cui il Padre dona il suo perdono al figlio maggiore, nel bel mezzo del suo podere! Desideriamo di sentirle risuonare nel cuore quando andiamo a riconciliarci con Dio, con problematiche simili nell’anima. Proteste, lamenti, rancori, invidie forse non del tutto superate. Andiamo alla confessione per ottenere la grazia di Dio decisiva per strapparle definitivamente dal cuore. In quel momento ascoltiamo anche noi quelle parole.
<<Figlio>>. Sentiamo in questa parola tutto l’amore di un Padre che non ha i limiti che hanno i padri terreni, anche quelli molto buoni. Cadiamo spesso nell’errore di attribuire a Dio Padre reazioni umane difettose, come se si legasse al dito i nostri sgarbi. Ma questo capita agli uomini, non a Dio.  Dio è Padre nel significato pieno, assoluto, divino del termine. Non condiziona il suo amore alla nostra bravura, alla nostra corrispondenza, come capita spesso ai padri e alle madri della terra. Ci ama perché siamo opera sua, perchè ci ha fatto suoi figli; ci ama per come siamo, per quello che siamo. Stravede per noi. Anche quando abbiamo calato sul volto la maschera del rancore. Sorride, accarezza: Figlio. In quella parola c’è tutto.
<<Tu sei sempre con me>>. L’amore di Padre che lo porta a stravedere per il figlio, lo spinge quasi a non essere oggettivo, a non vedere, a dimenticare, a trasfigurare le nostre mancanze. Perché non è vero che quel figlio stia sempre con il Padre. Guardando l’episodio dalla parte nostra, non possiamo che constatare che ci eravamo allontanati, che non siamo stati sempre con lui. Da parte sua invece è del tutto vero: il Padre non ci abbandona mai, sta sempre con noi, è sempre dalla nostra parte, fa il tifo per noi. Dà valore anche soltanto allo stare fisicamente nella stessa casa, lavorare lo stesso podere, gli stessi campi. Ci viene a cercare quando è l’imbrunire e non siamo ancora tornati per la cena, e, spinto dal suo cuore di Padre si contraddice. Ci viene a cercare perché non siamo più con lui, ma nella sua formula di perdono incondizionato ci dice il contrario: Figlio, tu sei sempre con me. Mentre lo dice lo realizza, ci unisce a lui. Queste parole valgono tanto quanto l’abbraccio pieno di baci al figlio più piccolo e indisciplinato. O forse ancor di più? Non si può fare un confronto, perché il Padre manifesta l’affetto infinito in modo diverso perché diversi sono i suoi figli e le loro esigenze. Quello più giovane, affaticato dalla lunga esperienza di lontananza, solo, affamato… che era andato in cerca delle carezze delle prostitute, ha bisogno dei baci del Padre e della festa. Al figlio più grande, un po’ schivo, che non ha mai apprezzato le moine, bisogna rivolgersi con  parole che gli dicano molto di più delle carezze. Ha bisogno di un discorso che dissipi in profondità i suoi dubbi, che lo conforti sulla fiducia che il Padre ha in lui, che è il suo vero problema.
<<E tutto ciò che è mio è tuo>>. Il Padre, che è il Dio del cielo, sta dicendo a ciascuno di noi che nel nostro fare le bizze ci siamo dimenticati che siamo figli di Dio. Tutto ciò che è di Dio è tuo, figlio mio, figlio di Dio. Detto proprio nel momento nel quale un padre della terra avrebbe la tentazione di rimproverare, di discutere o di reagire con orgoglio di fronte a una critica ingiusta. Sentiti figlio perché lo sei: qualunque capretto è alla tua portata, è tuo: prendilo pure e fa festa con i tuoi amici. I tuoi amici sono miei amici, portali nella mia casa a fare festa con te. Saranno come figli per me. Torna nella mia casa che è la tua casa, vieni a fare festa. Riscopri tuo fratello come fratello. Tutto è tuo, figlio: la terra e il firmamento, il mondo e l’eternità, ogni creatura, l’umanità di ogni tempo, la grazia, i doni, Gesù di Nazaret e lo Spirito santo, tutto è tuo.   Gesù, parlando con il Padre a proposito dei discepoli che gli ha  affidato, dirà: <<Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie>> : le stesse parole. Il figlio maggiore rimane a bocca aperta. Si scioglie il suo cuore e torna la pace interiore. Non pesa più il lavoro, torna la voglia di danzare.
Il Padre vuole dirci: non soltanto i capretti per le tue feste, ma soprattutto questo figlio mio perduto e ritrovato, e tutti i tuoi fratelli e tutti i miei discepoli, fanno parte di ciò che è mio ed è allo stesso titolo totalmente tuo. Per questo puoi fare festa insieme con  me con la mia stessa gioia. Vuole dirci: Sii per me un altro figlio Gesù. La parabola finisce qui. Non c’è spazio che per lo stupore e per il silenzio di meditazione. Cala il sipario su questa grande comunicazione dell’amore di Dio.

 

2 pensieri su “GLI SI GETTÒ AL COLLO E LO BACIÒ.Il Padre perdona i due figli e fa festa con loro”

  1. Anonimo dice:

    é bene anche onorare il pagamento dei debiti

  2. Alan dice:

    Che grande prospettiva da queste parole! È la confessione che può portare ciascuno dentro il Vangelo?

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