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Il sogno di Giuseppe e l’angelo: Benedetto XVI, il Conclave, il futuro Papa

Nella festa di san Giuseppe del 1992 il card. Ratzinger pronunciò un’omelia che contiene considerazioni della sua preghiera che possono aiutarci a capire la sua vita successiva: l’accettazione a proseguire il suo compito di prefetto della dottrina della fede nonostante le dimissioni presentate a 75 anni a Giovanni Paolo II e da lui respinte,  il si alla chiamata ad essere Papa il 19 aprile, e le recenti dimissioni. Forse ci può anche aiutare a capire quale spirito dovrà avere il futuro Papa, a pregare san Giuseppe per il conclave che inizia il 12 marzo, durante la novena di preparazione alla festa di san Giuseppe. Ad affidare la Chiesa e il Conclave e il prossimo Papa al patrono della Chiesa universale. In corsivo i miei commenti. Così cominciava l’omelia::  “Di recente ho visto in casa di un amico una rappresentazione di san Giuseppe che mi ha fatto pensare molto. È un rilievo preso da una pala d’altare portoghese di epoca barocca, che rappresenta la notte della fuga in Egitto. Vi è raffigurata una bottega aperta e accanto un Angelo in piedi. Lì dentro, Giuseppe, vestito da pellegrino con alti sandali ai piedi, pronto per un difficile cammino, sembra dormire. Ad un primo sguardo pare strano
che un viandante possa dormire, ma riflettendoci attentamente si può intuire che cosa l’immagine vuole suggerire” Facciamo una prima sosta per  immaginare un’identificazione dell’omileta con san Giuseppe. La bottega é il suo ufficio di prefetto della Congregazione della dottrina della fede e, in profezia inconsapevole, il suo futuro ufficio di Papa, quello della finestra che si apre su piazza san Pietro. Lui sta con gli abiti del pellegrino. In questo abito che card. Ratzinger nota, ritroviamo  un’immagine classica della vita cristiana. L’autore dell’omelia peregrinerà verso luoghi non scelti da lui: essere Papa a 78 anni. Nelle sue ultime parole da Papa a Castelgandolfo così si definirà: non sarò più Papa, sono un pellegrino che compie il suo viaggio verso l’ultima meta. Continuiamo ad ascoltare l’omelia:“Giuseppe, senz’altro  dorme ma allo stesso tempo sta in ascolto della voce dell’Angelo (Mt 2,13ss). Questa scena richiama quella del Cantico dei Cantici dove il poeta dice: io dormo, ma il mio cuore veglia (Cant 5,2). Riposano i sensi esterni ma le profondità dell’anima sono libere. Quella bottega aperta è la figurazione dell’uomo che ode ciò che risuona nella sua intimità, o che gli viene detto dall’alto  l’uomo che ha il cuore sufficientemente disposto a ricevere la parola che il Dio vivente e il suo Angelo gli vogliono comunicare. In quelle profondità l’anima di ciascuno di noi può incontrare Dio che gli parla, facendosi vicino.” È molto bella questa immagine della nostra vita. Possiamo applicarla anche al nostro lavoro, alla nostra bottega, e più ampiamente a tutti gli ambiti quotidiani della nostra vita: li possiamo stare in ascolto di Dio e del suo angelo. “Tuttavia, il più delle volte ci ritroviamo travolti dalle preoccupazioni, dalle inquietudini, dalle aspettative e dai desideri di ogni genere, e così strapieni di immagini e di vincoli prodotti dal vivere quotidiano, che, per quanto stiamo attenti esternamente, si rende indispensabile una intensa vigilanza interiore per poter ascoltare le voci che parlano all’anima  Essa è tanto appesantita dalle molte barriere elevate dentro di sé, che la voce del Dio vicino non può farsi sentire. Con l’avvento dell’età moderna, noi uomini abbiamo dominato sempre di più il mondo, sfruttandone le cose per i nostri desideri; ma i nostri progressi nel dominio sulle cose e la conoscenza di ciò che è realizzabile attraverso di esse, ha ridotto la nostra sensibilità in tale maniera da far diventare il nostro universo unidimensionale. Siamo dominati dalle nostre cose e da tutti gli oggetti costruiti dalle nostre mani diventati strumenti per produrre altri oggetti. In sostanza non vediamo che la nostra immagine e non siamo in grado di ascoltare la voce profonda che dalla Creazione ci parla, anche oggi, della bontà e della bellezza di Dio. Giuseppe dorme, ma è pronto ad ascoltare ciò che sente dentro il suo cuore e dall’alto – perché come dice il Vangelo che abbiamo appena letto –, egli è l’uomo che riunisce in sé l’intimo raccoglimento e la prontezza nell’agire  Dalla bottega aperta della sua vita, ci invita a ritirarci dal chiasso dei sensi per poter recuperare il raccoglimento; a rivolgere lo sguardo all’interno di noi stessi e verso l’alto perché Dio possa toccarci l’anima e comunicarci la sua parola. La Quaresima è tempo adatto per allontanarci dagli affanni e dirigere i nostri passi sui cammini dello spirito.” Giuseppe che dorme e che ascoltala voce dall’alto può essere una immagine potente che ci ricorda  i cardinali riuniti in conclave ad ascoltare la voce dello Spirito, la voce dall’alto, che chiamerà uno di loro dove lui non vuole. “Vediamo Giuseppe pronto ad alzarsi e, come dice il Vangelo, a compiere la volontà di Dio (Mt 1,24; 2,14). Così egli si inserisce nella vita di Maria, nella risposta ch’ella darà al momento decisivo della sua esistenza: ecco la serva del Signore (Lc 1,38). Così san Giuseppe risponde: Ecco il tuo servo, disponi di me. La sua risposta coincide con quella di Isaia quando ricevette la chiamata: eccomi, Signore, manda me (Is 6,8, e 1 Sam 3,8ss). Questa chiamata, da allora in poi, conformerà l’intera sua vita. Ma similmente c’è un altro testo della Scrittura: l’annunzio che Gesù fa a Pietro dicendogli: ti porteranno là dove non vorresti andare (Gv 21,10). ” Questo accenno del card. Ratzinger, letto oggi risuona profetico per la sua vita e anche per la vita del prossimo Papa: Dio gli ha chiesto di essere Papa e poi anche di rinunciare al ministero di Pietro dopo otto anni. Ai seminaristi di Roma tre giorni prima di dare l’annuncio delle sue dimissioni parlava di Pietro e delle parole profetiche di Gesù in questo modo: “Certamente (Pietro, andando a Roma) si è ricordato anche delle ultime parole di Gesù a lui rivolte, riportate da san Giovanni: “Alla fine, tu andrai dove non vuoi andare. Ti cingeranno, estenderanno le tue mani” (cfr Gv 21,18). E’ una profezia della crocifissione. I filologi ci mostrano che è un’espressione precisa, tecnica, questo “estendere le mani”, per la crocifissione. San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio  Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico.” Consapevolezza della dimensione di martirio del Papa. Continuiamo ad ascoltare l’omelia del 1992:“Giuseppe fa della sua prontezza una regola di vita: perché è sempre disponibile a lasciarsi guidare, anche se la direzione scelta non è la sua. L’intera sua vita è la storia di questo modo di corrispondere. Iniziò con il messaggio dell’Angelo sul segreto riguardante la maternità divina di Maria, il mistero della venuta del Messia. All’improvviso  l’idea che si era fatta di una vita nascosta, semplice e tranquilla, viene sconvolta quando è scelto per essere partecipe dell’avventura di Dio tra gli uomini. Accadde così anche a Mosè davanti al roveto ardente quando si trovò faccia a faccia con un mistero di cui dovrà essere testimone e compartecipe. Giuseppe scoprirà subito ciò che questo mistero implica: la nascita del Messia non avverrà a Nazaret, anzi dovrà partire per Betlemme, la città di Davide, ma nemmeno là nascerà: perché i suoi non l’hanno accolto (Gv 1,11). S’intravede già l’ora della Croce: il Signore nascerà nei dintorni, in una stalla. Appena dopo un altro annunzio dell’Angelo, ed ecco la fuga in Egitto, dove vivrà “senza casa e senza patria”: come i rifugiati, gli stranieri, gli sradicati che cercano un luogo dove potersi stabilire con la famiglia. Tornerà in patria, dove vi troverà altri pericoli. Più tardi soffrirà per tre giorni la dolorosa esperienza dello smarrimento di Gesù (Lc 2,46); quei tre giorni sono presagio di quelli che intercorreranno tra la Croce e la Resurrezione: giorni nei quali il Signore scompare e fa sentire il vuoto della Sua assenza. E come il Resuscitato non tornerà a vivere con i suoi con la familiarità dei giorni trascorsi insieme, e dirà: non posso trattenermi perché devo salire al Padre e potrai stare con me quando anche tu salirai (cfr. Gv 20,17), così ora quando Gesù è ritrovato nel Tempio, riappare in primo piano il suo mistero di lontananza, di gravità e di grandezza. Giuseppe si sente, in un certo senso, richiamare al suo posto da Gesù, però allo stesso tempo portato in alto. Io debbo occuparmi delle cose del Padre mio (Lc 2,19); è come se gli dicesse: tu non sei mio padre, ma custode, che per l’elargita fiducia sei stato incaricato di custodire il mistero dell’Incarnazione.” Anche in questo passaggio scopriamo le radici profonde della contemplazione che ha permesso a Benedetto XVI di considerarsi servitore di un disegno di Dio. Visione che potrà aiutare il nuovo eletto a dire di si alla chiamata. “E infine, Giuseppe morirà senza aver visto la realizzazione della missione di Gesù. Nel suo silenzio resteranno sepolte le sue sofferenze e speranze. La vita di questo uomo non è stata quella di chi, pretendendo di realizzarsi cerca soltanto in sé i mezzi necessari per fare della sua vita ciò che desidera. È stato l’uomo che ha detto no a se stesso, che si è lasciato condurre dove non avrebbe voluto andare. Non ha fatto della sua vita una cosa per sé, ma qualcosa da donare. Non ha seguito un piano concepito dalla sua mente e deciso dalla sua volontà ma, accettando i disegni di Dio, ha rinunciato alla sua volontà per essere parte di quella dell’Altro, della volontà grandiosa dell’Altissimo. Però è proprio in questa totale rinuncia di se stesso che egli si scopre. Perché la verità è questa: solo se sappiamo perdere noi stessi, se ci diamo, potremo ritrovarci. Quando ciò accade, non è la nostra volontà a prevalere ma quella del Padre a cui Gesù si è sottomesso: non sia fatta la mia, ma la tua volontà (Lc 22,42). E come allora si compie ciò che diciamo nel Padre Nostro: si faccia la tua Volontàcome in Cielo così in terra: è una parte di Cielo ciò che sta in terra, perché in essa si compie ciò che sta in Cielo. Perciò san Giuseppe ci ha insegnato con la sua rinuncia e il suo abbandono, anticipando l’imitazione di Gesù crocifisso, i cammini della fedeltà, della resurrezione e della vita.” Risuonano in queste parole quelle dell’ultima udienza, la sua volontà di continuar ad essere totalmente dedito al ministero ma in modo diverso” Guardando Giuseppe, vestito da pellegrino, comprendiamo che a partire dal momento del Mistero, la sua esistenza sarà quella di chi è sempre in viaggio, in un costante peregrinare. La sua fu una vita marcata con il segno di Abramo: perché la storia di Dio tra gli uomini, che è la storia dei suoi eletti, comincia con l’ordine che ricevette il padre della stirpe: vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, per diventare uno straniero (Gen 12,1; Eb 9,8ss). Oltre ad essere una replica della vita di Abramo, quella di Giuseppe diventa prefigurazione della vita del cristiano. Con straordinaria vivacità ritroviamo questo concetto nella prima lettera di san Pietro e in quella di san Paolo agli Ebrei. Noi cristiani – ci dicono gli Apostoli – dobbiamo considerarci stranieri, pellegrini e ospiti sulla terra (1 Pt 1,17; Eb 13,14): perché la nostra casa, o come dice san Paolo nella lettera ai Filippesi, la nostra cittadinanza sta nei Cieli (Fil 3,20).” Benedetto XVI lo ha ripetuto ai seminaristi di Roma tre giorni prima di pronunciare la sua rinuncia: siamo pellegrini e stranieri.” Oggi queste parole sul Cielo non vogliamo ascoltarle, perché crediamo che, allontanandoci dai nostri doveri terreni, ci estraniamo dal mondo. Crediamo che la nostra vocazione è solo fare della terra un Paradiso, ma in realtà comportandoci così distruggiamo la Creazione, perché, in fondo, l’uomo anela all’infinito  ed oggi, più che mai, solo Dio può appagarlo completamente. Siamo fatti in modo che le cose finite ci lasciano sempre insoddisfatti perché abbiamo bisogno di molto di più: abbiamo bisogno dell’Amore inesauribile, della Verità e della Bellezza infinite. Sebbene questo anelito sia insopprimibile, noi possiamo eliminarlo dai nostri orizzonti e cercare l’infinito dove non è possibile trovarlo. Desiderando il Cielo già sulla terra, ci aspettiamo ed esigiamo tutto da essa e dalla società attuale. Ma nell’esigere l’infinito dal finito l’uomo calpesta la terra e rende impossibile una ordinata convivenza sociale con gli altri, vedendoli come minaccia od ostacolo. Solo quando rivolgeremo nuovamente lo sguardo al cielo, la terra brillerà ancora in tutto il suo splendore. Solo quando daremo vita alle grandi aspettative dei cuori con l’idea di un eterno stare in Dio, e ci sentiamo nuovamente pellegrini verso l’Eternità invece di essere attaccati a questa terra, allora irradieremo i nostri aneliti a questo mondo perché abbia ancora la speranza e la pace.
Per tutto ciò ringraziamo Dio nel giorno della festa di questo Santo che ci parla di raccoglimento, che ci insegna la prontezza, l’obbedienza e l’atteggiamento dei viandanti che si lasciano guidare da Dio; e che ci indica il modo di servire su questa terra. Imploriamo la grazia affinché, facendoci conoscere la vigilanza e la prontezza, possiamo essere un giorno ricevuti da Dio: vera meta dei viandanti”. Che san Giuseppe, amico della libertà di Dio, come lo definiva san Josemaría protegga e aiuti la Chiesa, Benedetto XVI, il Conclave e il futuro Papa.

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