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MARIA CORREDENTRICE E L’APOSTOLATO CRISTIANO

Omelia di don Matteo Fabbri, Novena all’Immacolata, Duomo di Milano 6 dicembre 2012 S. Messa vigiliare della Solennità di Sant’Ambrogio


Sant’Ambrogio, la cui solennità anticipiamo a questa cerimonia vigiliare, era un grande innamorato della Madonna, di cui ha cantato e proclamato le lodi in molti scritti.
Ad esempio, la raffigura così ai piedi della Croce: “la Madre (…) contemplava con uno sguardo pieno di pietà le piaghe del Figlio, per mezzo del quale essa sapeva che sarebbe venuta la redenzione del mondo. Assisteva al generoso martirio del Figlio, lei che non temeva gli uccisori di lui. Il Figlio pendeva dalla Croce; la Madre si offriva ai persecutori”[1]Colpisce la profonda identificazione della  Madre con il Figlio. È quello che i teologi dei secoli successivi chiameranno il mistero di Maria Corredentrice, ovvero la partecipazione attiva della Madre al Sacrificio redentore del Figlio e a tutta la sua forza salvifica. In questa luce possiamo leggere il passo del Vangelo

che ci è proposto dalla liturgia: la barca dei discepoli, nella quale è facile vedere la anticipazione della Chiesa, è sballottata dalle onde finché non giunge Gesù, camminando sulle acque. È solo quando i discepoli vogliono prenderlo a bordo, che la barca tocca rapidamente la riva e giunge così a destinazione. Questo vale per la Chiesa intera: essa, come Maria, trova la sua forza e la sua efficacia solo in Gesù, solo nella sua effettiva unione con Cristo, suo Sposo. Ma questo vale anche per ciascuno di noi, come stiamo vedendo in questa Novena. L’esempio della Madonna ci sprona verso una vita cristiana più vera, più autentica, e lo abbiamo assaporato; come a Cana, Ella ci dice: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”[2]. Ci esorta ad aprire il nostro cuore per accogliere Gesù, a volerlo prendere a bordo della nostra vita. Possiamo applicare queste considerazioni alla santificazione personale, alla nostra lotta, ma anche alla partecipazione di ciascuno di noi alla corredenzione. È l’apostolato cristiano. Esso può avere efficacia solo se siamo in Cristo, solo come traboccare della vita interiore e della grazia dallo Spirito Santo che ci muove. È uno dei punti che il Papa ci ha voluto far considerare in questo Anno della fede: “Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti: con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato (…) Caritas Christi urget nos (2 Cor 5, 14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra”[3]Parole chiare e impegnative, che ci richiamano alla enorme ricchezza della nostra vita cristiana, che naturalmente tende a straripare intorno a noi, in cascate di esempio gioioso, di testimonianza vibrante e di consiglio amichevole. Troppo spesso siamo pervasi da una mentalità individualista anche nel modo di vivere la nostra fede: tendiamo a pensare che in fondo anche nel rapporto con Dio valga il detto “si salvi chi può!”, riduciamo la fede ad una opinione personale o a una convinzione da seppellire nel privato[4]. La Madonna ci insegna il contrario: Ella è Madre della Chiesa nascente e si affatica nel curare e mantenere la fede degli Apostoli: pensiamo a quello che sarà stato il suo ruolo nel primo Sabato Santo, giorno in cui Ella era l’unica credente. Con il suo affetto materno ha contribuito a mantenere viva nei discepoli almeno la fiammella del rimpianto, che ha permesso loro di essere ancora insieme la mattina della Pasqua.

No, il dono della fede mi è fatto non perché lo custodisca solo per me; mi è fatto per trasmetterlo. Il discepolo è partecipe della vita di Cristo e, con parole di san Josemaria, “non è possibile separare in Cristo il suo essere Dio-Uomo e la sua funzione di Redentore. Il Verbo si fece carne e venne sulla terra ut omnes homines salvi fiant, per salvare tutti gli uomini. Nonostante le nostre miserie e le nostre limitazioni, ciascuno di noi è un altro Cristo, lo stesso Cristo, anche noi chiamati a servire tutti gli uomini”[5]. La missione apostolica è elemento intrinseco della nostra vita cristiana: siamo tutti responsabili di tutti. L’incontro con Cristo è luce per noi e per gli altri. Con parole del nostro Arcivescovo: “Nella sua luce vediamo la luce che permette di ridire a noi stessi, con semplicità, che cosa è la fede e rinnovare a tutti l’annuncio della verità buona del Vangelo in quell’adempimento  necessario e desiderabile, che chiamiamo nuova evangelizzazione”[6]Ma appena passiamo da una considerazione astratta dell’impegno di tutti nella nuova evangelizzazione alla considerazione concreta della vita di ciascuno di noi, subito ci si pone un problema. Come posso io essere apostolo (inviato del Signore Risorto) se la mia fede è così debole? Io stesso, tante volte, tocco con mano la fatica della coerenza: e come posso allora pretendere di insegnare ad altri? Sulla base di quale autorità o autorevolezza? Sono domande frequenti, che richiedono una risposta articolata.
Cominciamo con il dare la parola al Beato Giovanni Paolo II, che ha usato un’espressione particolarmente felice a proposito: “La fede si rafforza donandola!”[7]. La testimonianza fa parte della crescita stessa della fede. Non occorre attendere di aver raggiunto chissà quali vertici di santità per parlarne e mostrarne la bellezza a chi ci sta intorno, basta aver cominciato ad assaporare il gusto di Dio. E neppure occorre chissà quale investitura solenne da parte della Gerarchia. L’apostolato cristiano è un diritto e un dovere di ogni singolo battezzato in quanto tale, non è esecuzione di un mandato del Vescovo o del parroco; scaturisce dal nostro Battesimo, perché è parte necessaria della nostra VITA cristiana. Già san Tommaso d’Aquino diceva che “Istruire qualcuno per condurlo alla fede è il compito di ogni predicatore e anche di ogni credente”[8].
Certamente la prima e più fondamentale espressione dell’apostolato cristiano è la testimonianza. Questa è costituita dall’esempio della vita e dall’insegnamento della parola. Sottolineo i due elementi: la parole senza esempio muoiono prima ancora di essere pronunciate, e l’esempio senza parola nasconde troppo spesso comodità e rispetto umano. Parola ed esempio, perché questa è la logica profonda e intrinseca della stessa Rivelazione, compiuta in Cristo gestis verbisque, con fatti e parole, secondo la ricca espressione del Concilio Vaticano II[9].
Lo stesso Catechismo insiste sul punto: “Tale apostolato non consiste nella sola testimonianza della vita: il vero apostolo cerca le occasioni per annunziare Cristo con la parola, sia ai credenti… sia agli infedeli”[10]La testimonianza passa quindi attraverso l’esempio della rettitudine della nostra vita. Rettitudine che è ricerca, a volte faticosa, ma sempre sincera. E questo si vede. Si vede lo sforzo per essere pazienti in famiglia, …anche se a volte si perde la pazienza: si saprà recuperare, chiedendo scusa. Si nota l’impegno per compiere bene il proprio lavoro anche nei piccoli particolari, anche se questo è compatibile con errori, visto che nessuno è perfetto. Questo non è ipocrisia. Predica bene e razzola male chi non lotta. Ma chi si impegna, dà un esempio buono e reale, e, soprattutto … accessibile, alla portata di tutti. Ma l’esempio e la testimonianza in esso racchiusa ha anche un altro elemento: la gioia. Non possiamo pretendere di essere apostoli se andiamo in giro con una faccia da funerale. Chi pensiamo di convincere se abbiamo un muso lungo che… quasi ci si inciampa! Ci vuole il sorriso ampio, la gioia e anche un pizzico di buon umore, che dovrebbe essere una caratteristica di noi cristiani. Ricordo il caso di una signora di una certa età (non esistono donne anziane: da un certo momento in poi semplicemente hanno una certa età); questa signora era di età ormai certissima, tanto da essere anche abbastanza sorda. Un bel giorno va in una chiesa dove sapeva che c’era un sacerdote a confessare, raggiunge il confessionale e comincia la sua confessione. Solo dopo un po’ di tempo di rende conto che la sua sordità le aveva giocato davvero un brutto scherzo: il sacerdote… non c’era. Allora, con una buona dose di senso dell’umorismo, esce dal confessionale ridendo di se stessa, pensando “mi sono proprio ridotta male!”. Il giorno seguente, dopo aver fatto le dovute verifiche, ritorna. Questa volte il sacerdote c’è e infatti c’è coda. Mentre aspetta, una ragazza giovane le si avvicina e le dice: “Signora, devo ringraziarla”. La signora, sorpresa, dice che non sa perché e che neppure le sembra di averla mai vista. Ma la giovane continua: “è vero che non ci conosciamo ma devo ringraziarla lo stesso. Vede: io mi sono appena confessata. Era da diversi anni che non lo facevo e avevo molta paura di farlo. Ieri ero in questa chiesa, in fondo, timorosa. E quando l’ho vista uscire così contenta dal confessionale, mi sono decisa a confessarmi anch’io”. Grazie a una risata! È il senso dell’umorismo di Dio, che si serve anche della sordità di quella signora e del suo non prendersi troppo sul serio per toccare il cuore di una giovane. Il punto è che sul nostro volto brilla la gioia di Cristo. E si nota. San Paolo usa questa espressione: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”[11]E oltre all’esempio e allo splendore della nostra vita, c’è la nostra parola, il nostro invito, sostenuto sempre da abbondante orazione e mortificazione. Preghiamo per amici e colleghi o colleghe: è il primo modo per avvicinarli al calore del Cuore di Cristo. E poi, parlare con amicizia e affetto.
Non si tratta di fare chissà quali discorsi, né tanto meno di pretendere di fornire un insegnamento da saputelli. Tante volte basterà dire, con semplicità: “Ho pregato per te”. E questo darà la stura a confidenze personali.
Non servono prediche fastidiose (e infatti mi avvio alla conclusione!), ma confidenze fatte con il cuore. Raccontiamo ciò che è servito a noi: sono cose belle. Se ci sembra che sia stata utile questa Novena, perché non parlarne agli amici, raccontando qualcosa che ci ha colpito? Un amico che non vedevo da tempo mi chiedeva ormai tanti anni fa come stesse mio padre: bene, risposi, è contento; mi chiese poi di mio fratello che allora era da poco anche lui sacerdote; e io, senza pensarci, dissi: è contento, sai sono i primi mesi di sacerdozio… Mi interruppe e mi chiese: ma come fate ad essere tutti così contenti? Fu l’occasione di cominciare a spiegarglielo.
Parlare della nostra esperienza, certo. Ma parlare di Cristo. È Lui che attira, anche oggi. Stiamo attenti a non parlare troppo di cose, di doveri, di quello che dovresti fare e non fai (a volte è pure necessario). Cerchiamo invece di mostrare in modo vivo la bellezza del volto di Cristo.
Un ultimo racconto: un giovane studente universitario che aveva frequentato una residenza universitaria, scrisse un giorno una lettera a quello che era il direttore della residenza, annunciandogli che sarebbe entrato in seminario. Diceva: “Mi hai insegnato anni fa che l’apostolato è presentare l’amico (minuscola) all’Amico (maiuscola). Grazie di avermelo presentato.”
La Madonna, Regina Apostolorum ci è di esempio anche nell’apostolato  Ed infatti si reca in fretta a visitare la parente Elisabetta, appena ha la notizia della sua gravidanza dall’Angelo  Sant’Ambrogio commenta la scena così: “La grazia dello Spirito Santo non conosce i lunghi indugi”[12]. Chiediamo a Maria Immacolata di saper rompere anche noi gli indugi.
Amen.



[1]De institutione virginis, n. 49.
[2]Gv 2, 5.
[3]Porta Fidei, n. 6 – 7.
[4]Cfr. A. Scola, Alla scoperta del Dio vicino, n. 6.
[5]E’ Gesù che passa, n. 106.
[6]Alla scoperta del Dio vicino, n. 4.
[7]Lett. Enc. Redemptoris Missio (7-XII-1990), n. 2.
[8]Summa Theologiae III, q. 71, a. 4, ad 3.
[9]Cost. Dogm. Dei Verbum sulla divina Rivelazione, n. 2.
[10]CCC, n. 905, con cit. del Decr. Apostolicam actuositatem, n. 6.
[11]2 Cor 3, 18.
[12]Commento al Vangelo di san Luca, II, 19.

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