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LA CAPACITA’ DI SCHERZARE ANCHE NEL DRAMMA E’ UNA VIRTU’? L’ESEMPIO E L’INSEGAMENTO DI SAN TOMMASO MORO


Carlo de Marchi,  letterato e sacerdote milanese, ha pubblicato un articolo dal titolo “Cattolicesimo e umorismo inglese” sulla rivista Studi cattolici 625 (marzo 2013), pag. 184-186. Il titolo può far pensare ad una trattazione teorica un po’ arida di un vasto tema, pur interessante,  invece lo scritto si basa quasi esclusivamente su testimonianze ed espressioni di san Tommaso Moro, che può essere molto utile conoscere a persone che ne sono devote, che lo conoscono come marito e padre, come umanista insigne, come statista, e soprattutto come uomo che ha saputo diventare santo in mezzo al mondo, in un periodo difficile della storia dell’Inghilterra e dell’Europa, come martire della verità della fede cattolica e dell’indissolubilità del matrimonio. Martirio che peraltro da buon cristiano e da persona furba e intelligente, ha cercato in ogni modo lecito di evitare. Lo riporto con un titolo diverso, che può invitare un pubblico più ampio alla lettura: tutti coloro che si trovano quotidianamente alle prese con la difficoltà di coniugare la serietà dei problemi che dobbiamo affrontare con il consiglio evangelico di coltivare la gioia, anzi la promessa della gioia piena per chi ascolta Gesù e lo segue, per chi  conosce e cerca di mettere in pratica le sue parole.  Nei discorsi dell’ultima cena del vangelo di Giovanni, si parla molto della gioia è ripetuta varie volte, come di essere beati nel servire, di ricevere la pace che non è quella che può dare il mondo, il comando di non lasciarci turbare il cuore, il desiderio che la nostra gioia sia piena…tutto questo ci dice Gesù, unito al turbamento per la consapevolezza del vicino tradimento dei suoi. Ma la dimensione della gioia ha comunque e di gran lunga il sopravvento. Tutto avviene poco prima della sua preghiera nel Getzemani, della sua cattura, processo, flagellazione, crocifissione e morte in croce. Problemi non da poco. Eppure c’è gioia e pace e amore. Anche sorpresa e vivacità dei suoi discepoli nel dialogo con lui.  Quindi non è strano che Dio doni ad un uomo, a un santo, a un suo testimone, una grazia simile, anche sotto la forma del buon umore sereno, dello scherzo giocoso, perché no: nel momento più drammatico della condanna a morte e della sua esecuzione. Buona lettura e buon tentativo di imitazione, o meglio preghiera con l’intercessione di Thomas Moore, per ottenere da Dio questa grazia sublime. Le immagini di Tommaso Moro che abbiamo sono tutte serie, ma dobbiamo immaginarcelo che sorride e che fa sorridere, anzi penso che proprio facesse ridere di gusto.


Tra le qualità universalmente riconosciute al popolo inglese c’è senz’altro il senso dell’umorismo. Per quanto non tutti apprezzino l’ironia sottile, la rapidità e l’understatementche lo caratterizzano, il luogo comune può difficilmente essere messo in discussione. Basta pensare, per fare solo alcuni nomi classici della letteratura, a L. Sterne, a Jerome K. Jerome, a P. G. Wodehouse, a molti indimenticabili personaggi di Dickens (nei quali si intravede una certa parentela con alcune figure di Tolkien e della Rowling).  E uno dei maestri più classici dell’umorismo inglese è san Thomas More, parlando del quale il teologo Louis Bouyer giunse ad affermare che “pochi uomini, in tutta la storia inglese, sono al pari di Thomas More, tipici rappresentanti di quella forma di finezza, incomprensibile per il latino o il tedesco, che si è soliti chiamare humour. Il gusto di spacciare imperturbabilmente delle enormità, non senza insinuare di sfuggita, ma nel senso più paradossale dei modi, molte verità di buon senso, costituisce tutto lo spirito (nel senso spicciolo del termine) di Thomas More”[1]. Il personaggio, com’è risaputo, è ricco di sfaccettature: padre di famiglia, umanista, uomo politico di primo piano nell’Europa dell’inizio del XVI secolo, cancelliere d’Inghilterra decapitato da Enrico VIII per non aver voluto approvare il suo primo divorzio, che implicava nel contempo la separazione della Chiesa inglese dalla Chiesa cattolica.

Tragedia e commedia

Erasmo da Rotterdam pensava a More quando scrisse il celeberrimo Encomium moriae, con gioco di parole proprio sul cognome dell’amico. Emblematica resta la definizione dell’umanista offerta da Robert Whittington, erudito inglese suo contemporaneo: “persona di straordinaria cultura e angelico ingegno. E’ dotato di molte virtù eccellenti […]: gentilezza, modestia, affabilità e, a seconda delle situazioni, capace sia di meravigliosa ilarità e divertimento, sia di solenne serietà – è un uomo per tutte le stagioni”. Il poeta secentesco John Donne disse di lui che era “l’uomo dalla coscienza più delicata e fine che sia mai venuto al mondo dopo sant’Agostino”; e Jonathan Swift, pastore anglicano dal gusto paradossale e spesso caustico, lo descrisse come “la persona dotata di virtù più elevata che il regno abbia mai generato”. È inoltre assai probabile che Shakespeare sia stato tra i quattro autori di una tragedia di fine ’500 dedicata proprio alla sua figura. Questa rapida carrellata di giudizi mostra come la fama di Thomas More non sia stata intaccata dalla controversia tra Chiesa anglicana e Chiesa cattolica. Non sono mancate tuttavia critiche anche violente per questa “sprezzatura” moreana. Alcuni contemporanei di More lo accusarono e altri lo accusano di cinismo e superficialità proprio per questo suo gusto dello scherzo. Un nomignolo dispregiativo che gli venne affibbiato nel bel mezzo della polemica che l’avrebbe portato alla morte fu quello di Master Mock (“Messer Burlone”). Se si scherza su tutto e su tutti, gli venne rinfacciato, si finisce per mancare di rispetto alle persone e alle istituzioni.  È senz’altro vero che lo scherzo era una costante di More, del quale l’amico Erasmo ricorda che “fin dall’infanzia imparò il gusto degli scherzi in tal modo che pare essere nato per questi; ma non esagera mai fino alla volgarità, né ha mai amato il sarcasmo”[2]. Per dirla con Chesterton, altro grande ammiratore dell’umanista, “dietro la sua vita pubblica, che costituì una così grande tragedia, c’era una vita privata che era una costante commedia (…). Tutti sanno che la commedia e la tragedia si incontrarono, come in Shakespeare, in quel palco di legno dove il suo [di More] dramma si concluse. In quell’istante tremendo egli intuì e considerò il grande scherzo che è il corpo umano come una specie di simpatico oggetto di famiglia e discusse solennemente se anche la barba fosse colpevole di tradimento; e disse, mentre cercava di issarsi su per la scaletta, Aiutatemi a salire, che per scendere me la caverò da solo[3].
In realtà, continua a essere sorprendente l’atteggiamento sorridente con cui Thomas More, malato e non più giovane, affronta la decapitazione. Proprio sulla strada verso il patibolo, incontrando un caro amico, More gli si rivolge dicendo: “Mio buon Messer Kingston, non vi angosciate, ma siate di buon umore. Perché io pregherò per voi e per la mia buona signora, vostra moglie, affinché ci possiamo incontrare insieme in cielo, dove staremo allegri per sempre”[4]. Pochi giorni prima, in una delle ultime lettere scritta alla figlia Meg dal carcere nella Torre di Londra, il condannato presenta la propria autodifesa: “Non voglio fare male a nessuno, non dico niente di male, non penso niente di male, ma desidero per tutti il bene”; e aggiunge: “E tu insieme a tutti i tuoi, e a mia moglie e a tutti i miei figli e a tutti i nostri amici, desidero di tutto cuore che stiate bene sia nel corpo sia nello spirito. E chiedo a te e a tutti di pregare per me e di non preoccuparvi, qualunque cosa mi accada: ho davvero fiducia nella bontà di Dio che, per quanto quel che mi succede possa sembrare cattivo a questo mondo, sarà realmente la cosa migliore nell’altro”[5].
Ma cosa si aspettava More di davvero “migliore” nella vita definitiva, dopo la morte? Risposte precise si trovano nel suo estremo capolavoro, il Dialogo del conforto nella tribolazione, che C. S. Lewis ha definito come “probabilmente il più bell’esempio di dialogo platonico che esiste nella letteratura inglese”, giungendo a dire che esso “dovrebbe essere presente in ogni biblioteca”[6].
Ecco un passo centrale del Dialogo: “Prima viene il tempo per piangere, ed è il tempo di questo mondo disgraziato; il tempo di ridere verrà dopo, in cielo. C’è anche un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante (Qo 3, 2). Adesso dobbiamo piantare, in questo mondo, per poter raccogliere nell’altro […]. E allora avremo per sempre in cielo un allegro raccolto di giubilo”. L’espressione “raccolto di giubilo”, tuttavia, non rende forse bene il realismo dell’originale, che parla di un “merry laughing harvest forever”. Non una gioia disincarnata, soltanto intellettuale, ma qualcosa che coinvolge tutto l’essere di una persona: “Ecco, coloro che andando verso la casa del cielo seminano i semi con lacrime nel giorno del giudizio torneranno nei loro corpi con una risata piena, che durerà in eterno” [7]. Un’eterna scorpacciatadi risate: questo è ciò che Thomas More si aspetta in Paradiso.

Una domanda esistenziale

L’amore per lo scherzo e la risata non rispecchia dunque semplicemente un tratto del temperamento di Thomas More. Egli stesso si pone, proprio nel mezzo del Dialogo, la domanda teorica se sia lecito scherzare, quando la vita, le verità eterne, la politica, la morale sono questioni che sembrano essere tanto serie. L’intero Dialogo, scritto – lo ricordiamo – in carcere, da una persona lontana dalla famiglia, che poteva avere solo cupi presagi sull’avvenire suo e dei suoi cari, è tempestato di barzellette (i cosiddetti merry tales), di racconti bizzarri e a volte macabri, spesso assai comici. La domanda teorica sulla liceità e convenienza dello scherzo, più che culturale e retorica, appare dunque di natura esistenziale e teologica.
Per trovare una trattazione della questione si deve risalire ad Aristotele, che nel IV libro dell’Etica a Nicomaco si domanda se sia giusto per l’uomo cercare riposo anche attraverso il gioco, e risponde affermativamente: nella vita sono necessari lo scherzo e la distensione, ma vanno evitati però gli eccessi propri del pagliaccio e del rozzo. Il giusto mezzo è la virtù dell’eutrapelia, propria di coloro che sanno scherzare e ricrearsi con misura, per essere più preparati ad affrontare le cose serie della vita. Dopo Aristotele, tuttavia, nei Padri e nella tradizione cristiana (e anche nel Nuovo Testamento) al termine eutrapelia viene attribuito un significato per lo più negativo, mettendolo in riferimento con il vizio della trivialità (scurrilitasnella Vulgata della Bibbia). Giustificare l’uso dello scherzo non è quindi impresa facile per More, che si trova di fronte a un’intera tradizione teologica e spirituale che guarda con sospetto le burle, i passatempi e spesso perfino il sorriso. La giustificazione è affidata da More nientemeno che al Dottore Angelico: “San Tommaso dice che una conversazione gradevole, chiamata eutrapelia, è una virtù buona, utile a ristorare l’animo e a renderlo pronto e desideroso di tornare alla fatica e allo studio, mentre uno sforzo senza soste lo farebbe diventare mortalmente fiacco”[8]. In effetti, il recupero del buonumore come virtù cristiana si deve proprio a san Tommaso d’Aquino, che lo chiama iucunditase lo rivaluta, discostandosi in questo dai grandi maestri della spiritualità. Di questo recupero Thomas More dimostra di essersi accorto, cosa che risulta sorprendente se si pensa che nel Rinascimento la scolastica era guardata con disprezzo e diffidenza quasi unanime. Invece More, rinchiuso nella Torre di Londra senza libri da consultare, cita a memoria la Summa Theologiae [9].  Insomma, per quanto paradossale possa risultare ai nostri occhi, il padre dell’umorismo inglese attribuisce alla massima autorità della teologia cattolica la giustificazione della liceità della battuta, del gioco e dello scherzo. Il che, per uno che definisce sé stesso un “mezzo pagliaccio o poco più” (con un gioco di parole che rimanda al proprio cognome: “half a gigglot or more”) e che ritiene che la gioia della vita eterna si esprimerà proprio nella risata, non può essere una coincidenza fortuita (e chissà se More conosceva la classica preghiera attribuita all’Aquinate che descrive la gioia della vita eterna come satietas plena, gaudium sempiternum, iucunditas consummata).

Buonumore quotidiano

Nel 1929 Chesterton disse di Thomas More che “è oggi più importante di quanto non lo sia stato in qualunque altro momento dalla sua scomparsa fino ad ora, forse perfino di più che nel grandioso momento della sua morte; ma non è ancora così importante come lo sarà tra cent’anni”[10]. I tempi di crisi nei quali viviamo sono senz’altro assetati di ottimismo, e anche di un buonumore quotidiano che insegni a sorridere nelle più diverse vicissitudini.
A patto di non farsene sfuggire il tono allegramente paradossale, si possono rileggere altre parole di Chesterton, che confermano la radice genuinamente cattolica dell’umorismo moreano: “Nessuno accusò mai i Riformatori di eccesso di giovialità, e alcuni di essi di fatto non risero mai in tutta la loro vita, e men che meno in punto di morte. Essi erano sinceramente e terribilmente seri nelle loro intenzioni. Essi volevano davvero scacciare tutti i preti, mentre l’autore di Utopia non aveva mai inteso esiliare sul serio tutti gli avvocati. Il Calvinista era fanatico a proposito del fatto che alcune brave persone erano necessariamente predestinate a finire all’inferno, molto più di quanto lo stesso Messer Itlodeo non fosse mai stato fanatico sul fatto che i cavalli andassero in paradiso”. Di fronte alla “malinconia religiosa e alla barbara vanagloria impazzite” dei riformati, Thomas More “non voleva morire per niente, essendo quel tipo di persona che cerca di godersi la vita fino all’ultimo, ma alla fine invece morì e, rendendo l’anima, morì ridendo”[11].
Amore per la vita e sorridente buon senso sono connotati essenziali della lezione dell’umorismo di Thomas More. Che poi una radice così profonda dello humour inglese risulti essere cattolica e tomista va forse visto come uno scherzo particolarmente gustoso della Provvidenza.




[1] L. BOUYER, Erasmo tra Umanesimo e Riforma, Morcelliana, Brescia 1962 (tit. or. Autour d’Érasme. Études sur le christianisme des humanistes catholiques, Cerf, Parigi 1955), p. 94.
[2] ERASMO da Rotterdam, Lettera a Hutten, 23 luglio 1519, in Collected Works of Erasmus, vol. 7, Toronto University Press, Toronto 1974, pp. 18-19.
[3] G.K. CHESTERTON, St. Thomas More, The Collected Works of G. K. Chesterton, vol. III, Ignatius Press, San Francisco 1990, p. 509.
[4] W. ROPER, The Life of Sir Thomas More, a cura di G. Wegemer e S. Smith, Dallas 2003, p. 55 (il libro è disponibile nel sito www.thomasmorestudies.org). Un’edizione italiana di questa famosa biografia scritta dal genero di More è a cura di J. Cinquino, Editore M. D’Auria, 1989.
[5] T. MORE, The Correspondence of Sir Thomas More, Princeton University Press, 1947, rist. 1954, pp. 550-554.
[6] C.S. LEWIS, English Literature in the Sixteenth Century Excluding Drama, Clarendon Press, Oxford 1954, pp. 172 e 178.
[7] T. MORE, Il Dialogo del conforto nelle tribolazioni, a cura di M. Nicoletti, Rubbettino, 2011, I, 13 (42/2-8).
[8] T. MORE, Dialogo del conforto nelle tribolazioni, II, 1 (82/17-21).
[9] La citazione è della Summa Theologiae, II-II, q. 168. Gli spunti di san Tommaso d’Aquino sull’allegria, l’ilarità e la iucunditas sono numerosi; per esempio, Super Sententiis, II, d. 4, q. 1, a. 5 co; S.Th., III, q. 45 a. 1 co; De veritate, q. 26, a. 4, ad 5; etc. Per approfondimenti si può vedere H. RAHNER, Eutrapélie, in M. VILLER (dir.) “Dictionnaire de Spiritualité”, Paris 1961, coll. 1726-1729.
[10] G. K. CHESTERTON, A turning Point in History, in SYLVESTER-MARC’HADOUR, Essential Articles for the Study of Thomas More, Archon, Hamden 1977, p. 501.
[11] G.K. CHESTERTON, Thomas More (1477-1535), in WARD, Maisie (ed.), The English Way. Study in English Sanctity from St. Bede to Newman, Sheed and Ward, Londra–New York 1933, p. 214 e 217. Come si ricorderà, Itlodeo è il protagonista-narratore di Utopia, celebre capolavoro moreano di ironia e paradosso

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