Esteban Murillo, Sacra Famiglia |
Omelia di don Matteo Fabbri. Martedì 4 dicembre, feria d’Avvento. Novena all’Immacolata, Duomo di Milano 2012
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”[1]. Queste parole dure di Gesù sono rivolte, come abbiamo sentito ai farisei, che rinfacciano ai suoi discepoli di non seguire la tradizione. Prima di citare questo oracolo profetico contro i suoi avversari, il Signore rinfaccia loro a sua volta di non osservare un comandamento molto quotidiano: “Onora il padre e la madre”. Il comportamento stigmatizzato dal Maestro si rifugiava dietro un formale compimento della tradizione degli antichi trascurando le esigenze più evidenti della vita quotidiana.
All’interno della nostra Novena possiamo trarre spunto da questa disputa, per comprendere che la chiamata che il Signore rivolge a tutti noi, la chiamata a vivere una fede coerente, profonda, personale, animata, come vedevamo ieri, da un dialogo vivo con Gesù nella preghiera personale, va vissuta nella vita ordinaria. Troppe volte cadiamo nella tentazione di considerare la santità come privilegio di alcuni e soprattutto come appannaggio esclusivo di sacerdoti e religiosi, mentre la vita normale di un padre o una madre di famiglia, di un professionista, di una studentessa, sarebbe qualcosa in fondo di estraneo alle attenzioni di Cristo. Per meglio dire, viviamo a volte come se la nostra condizione di laici cristiani, di cittadini impegnati in mille doveri professionali, familiari, sociali, fosse se non proprio un ostacolo alla santità, almeno una condizione alla quale “adattare” una spiritualità di stampo religioso. Di conseguenza le pratiche di pietà, la vita interiore risulta spesso artificialmente giustapposta alla vita di tutti i giorni. Ci si costringe così ad una sorta di ridimensionamento dell’ideale della santità. Lo si desidererebbe, ma non si va oltre una sorta di rimpianto. In questo modo il nostro cuore si troverebbe lacerato, diviso, tra la nostalgia di Dio e una pratica incapacità di raggiungerlo nelle circostanze concrete dell’esistenza. Che bello – dicevamo ieri – pregare, trasformare la nostra vita in dialogo con Dio, ma come può questo innervare la vita di una casalinga, o di una madre di bimbi piccoli? Come fare quando si tratta di dividere il proprio tempo tra un lavoro (comunque necessario perché il solo stipendio del marito è insufficiente) e le esigenze di accudire i bambini che vogliono stare con la Mamma? Come trovare il tempo per la preghiera? Come vincere la naturale tendenza alla accelerazione e al nervosismo, che sembra impadronirsi di noi?
Anche la vita di un professionista non appare più semplice: di fronte alle responsabilità del lavoro e alle pressanti scadenze, dove ritagliare qualche momento per recarsi alla S. Messa? Come contemperare le esigenze della professionalità (se non addirittura la prudenza di chi si sa circondato da “squali”) con la carità cristiana?
Non sono domande facili. Ma no lo sono non tanto perché non esistono ricette preconfezionate, ma soprattutto perché tali domande sembrano rintuzzare nel mondo delle chimere i nostri ideali di santità, che pure ci hanno affascinato.
Ancora una volta possiamo volgere il nostro sguardo a Maria Santissima. La sua vita è una vita normale, ordinaria, nascosta, silenziosa. Non è una vita in cui si trovano manifestazioni straordinarie. Eppure è proprio la Sua vicinanza al Figlio divino che la conduce attraverso una crescita progressiva in santità e grazia. Il Beato J. H. Newman, commentando la litania speculum iustitiae, scrive: le persone che si amano “col passare del tempo acquistano una rassomiglianza sorprendente e sempre più accentuata. Tutti possiamo costatare questo fatto. Nell’espressione dei lineamenti, nel timbro della voce, nel modo di camminare e di parlare, anche nella scrittura, divengono simili gli uni agli altri (…) Ora, consideriamo che Maria amò il suo Figlio Divino con un amore ineffabile, e pensiamo anche che lo ebbe tutto per sé per più di trent’anni. Comprenderemo subito che, come fu piena di grazia pria di concepirlo nel seno, così deve aver acquistato una santità altissima, incomprensibile, dopo aver vissuto così vicino a Dio (…). Con ragione quindi Maria è Speculum iustitiae: lo specchio della perfezione divina”[2]. Perfezione divina vissuta e rispecchiata dalla Madonna nella vita quotidiana, normale, ordinaria, comune. Il Pontefice, al termine del suo libro sull’infanzia di Gesù descrive, come peraltro fa lo stesso Vangelo, in poche pennellate la c.d. vita nascosta, in cui il Figlio di Dio Incarnato “ritorna alla situazione normale della sua famiglia, nell’umiltà della vita semplice e nell’obbedienza verso i suoi genitori terreni”[3]. Gesù, insieme alla Sua Santissima Madre e a san Giuseppe, si appresta a trascorrere la maggior parte della sua vita terrena, umana e divina, impegnato in occupazioni del tutto simili alle nostre. E, dobbiamo ricordarlo con grande chiarezza, tutto l’arco dell’esistenza terrena di Cristo appartiene a pieno titolo al Mistero dell’Incarnazione Redentrice. È il Catechismo della Chiesa Cattolica a spiegarlo con le seguenti parole: “Tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre: le sue parole e le sue azioni, i suoi silenzi e le sue sofferenze, il suo modo di essere e di parlare”[4]. Ancora: “Durante la maggior parte della sua vita, Gesù ha condiviso la condizione della stragrande maggioranza degli uomini: un’esistenza quotidiana senza apparente grandezza, vita di lavoro manuale, vita religiosa giudaica sottomessa alla Legge di Dio, vita nella comunità”[5].
Queste considerazioni ci riempiono di grande speranza, perché comportano una conseguenza per noi decisiva: la vita ordinaria, quella banale, quella davvero quotidiana, è proprio il luogo specifico del nostro incontro con Gesù. San Josemaría, che è stato definito a giusto titolo il “santo dell’ordinario” lo ha spiegato così: “lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. È in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini (…). Dio vi chiama per servirlo “nei” compiti e “attraverso” i compiti civili, materiali, temporali della vita umana: in un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in caserma, dalla cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno. Sappiatelo bene: c’è “un qualcosa” di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire”[6]. Sono parole ormai celebri, tratte da un’omelia pronunciata nel 1967 nel campus dell’Università di Navarra, pubblicata sotto il significativo titolo “Amare il mondo appassionatamente”. Ho voluto fare espresso riferimento a questa omelia perché ad essa si è riferito il nostro Arcivescovo nello scorso giugno, predicando da questo ambone in occasione della memoria liturgica del Fondatore dell’Opus Dei.
C’è qualcosa di santo e di divino nella tua vita di madre di famiglia! Il Signore ti aspetta nella tua vita “stressata” da professionista che ha fatto uno sforzo notevole, che il Signore vede e sa riconoscere, per uscire dall’ufficio e arrivare trafelato a questa celebrazione.
Ma come si fa a scovare questo “qualcosa di divino” ogni giorno?
Bisogna innanzi tutto vivere l’unità di vita. Ovvero non “divincolarsi” dalla Parola di Dio e dalla nostra fede rinchiudendola in alcuni ambiti esclusivi, circoscritti, della nostra giornata. Questo sarebbe equivalente a tranquillizzare la propria coscienza attraverso il compimento, pure necessario, di alcune pratiche devozionali, per ritenere tutto il resto dell’esistenza (lavoro, famiglia, rapporti di amicizia, svago, ecc.) come qualcosa da gestire in piena autonomia, come se in tutto ciò Dio non entrasse. La Madonna invece ci mostra una via diversa, quella appunto di una profonda unità dell’esistenza cristiana.
Questo passa attraverso la comprensione che vi è una circolarità necessaria tra le attività ordinarie da un lato e il nostro rapporto con Dio dall’altro.
Da una parte infatti il lavoro, la vita familiare, gli impegni sociali, tutte le circostanze della vita (persino le assemblee condominiali!) forniscono continuamente materia per il nostro dialogo con Dio. E riprendendo l’esempio di una madre con figli piccoli, come è bello pensare, mentre si svolgono i compiti più banali (ma necessari) relativi ai bambini che la Madonna ha fatto esattamente le stesse cose anche se, scusate, con pannolini meno raffinati. Spesso poi le preoccupazioni del lavoro, gli stessi rapporti umani di cui si intesse ogni professione, divengono oggetto di quel dialogo a tu per tu con Nostro Signore di cui dicevamo ieri: “Signore, oggi mi sono proprio arrabbiato! Aiutami a non perdere la pazienza. Aiuta Tizio e Caio a comportarsi in modo più trasparente…” Spesso in queste confidenze il Signore ci farà capire come possiamo aiutare, dare un senso cristiano, o semplicemente, ci darà la forza per sopportare.
D’altra parte il nostro rapporto con il Signore innerva tutto ciò che facciamo e lo sostiene dall’interno, trasformandolo per mezzo della grazia, fino a fare della nostra giornata intera un sacrificio spirituale, in una offerta gradita a Dio. È così che sapremo mettere l’ingrediente dell’amore nelle piccole cose di ogni giorno. Amore vero e concreto. Una madre di famiglia, che il Signore avrebbe chiamato a sé per una grave malattia a poco più di 40 anni, madre di tre figli, di profonda vita cristiana, quando tornò a casa dall’ospedale consapevole della gravità del suo stato, pur nelle limitazioni che la malattia le imponeva, si diede da fare per riempire di amore quei giorni, che erano gli ultimi che avrebbe trascorso su questa terra. Lo fece preparando la torta di mele che sapeva che piaceva a tutti; lo fece dirigendo le operazioni di lavaggio delle tende di casa… Lo fece diffondendo fino all’ultimo intorno a sé un sorriso invidiabile, sorriso che tradiva la sua fede.
La vita quotidiana sembra prosa banale, ma si può trasformare in poema divino. Tutto ciò che è umano ha, come creazione di Dio, una potenzialità, una virtualità che solo in parte è offuscata dal peccato. Per questo possiamo e dobbiamo guardare con speranza e amore questo mondo.
Per questo possiamo dire, davvero, in senso cristiano, che la vita è bella! Anche se ci sono difficoltà, anche se non tutto è rose e fiori. Non perché esista una vita perfetta. Piuttosto perché può esistere una vita ordinaria santificata. È questo che riempie il cuore di gioia, non la ricerca affannosa e spasmodica della soddisfazione dei propri gusti o la verifica quasi ossessiva del nostro stato interiore (“come mi sento? Sono contento/a?).
Ricordo che un caro amico mi riferiva che in ufficio durante una pausa nel lavoro con i colleghi sorse il classico argomento da caffè: qual è il tuo sogno nel cassetto? Ognuno diceva la sua: chi sognava un avvenire professionale più fiorente, chi, più prosaicamente, un viaggio in Polinesia… Finché, arrivato il suo turno, l’amico in questione con sincera semplicità disse che… non sapeva, che gli sarebbe piaciuto fare quel che stava facendo. Un altro collega allora gli disse: Ma tu sei un uomo felice! Era vero. E il segreto era che cercava di trasformare quelle giornate che ad altri sembravano sempre maledettamente uguali in qualcosa di santo, di divino.
Allora davvero non onoreremo il Signore solo con le labbra, ma con il cuore, con la vita intera. Ma per questo, come per tutto, abbiamo bisogno di affidarci a Maria.
[1]Mt 15, 9 (Vangelo della Messa).
[2] J. H. Newman, “Meditazioni per il mese di maggio”, in Maria, Jaca Book, Milano 1993, p. 195.
[3] J. Ratzinger – BenedettoXVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli – LEV, Milano – Città del Vaticano 2012, p. 145.
[4]CCC, n. 516.
[5]CCC, n. 531.
[6]Omelia “Amare il mondo appassionatamente”, in Colloqui, n. 114.