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PADRI, il primo romanzo di Marco Pogliani e CHIAMATA il suo capitolo più bello

Come vedete si intitola Padri. E’ il primo romanzo di Marco Pogliani.  Ci conosciamo da quando eravamo ragazzi. la prima notizia del libro l’ho avuta da mia madre, da sempre mia fervida consigliera di letture. L’ho preso in mano. Letto. Mi sono ritrovato. Commosso. Divertito. Tanti capitoli belli, ma soprattutto questo. Ve lo consiglio. Poi mi spiego meglio.

CHIAMATA
Non so come. Non so perché. So solo quando. E anche questo in modo confuso. Io non ho fatto niente. Per lo meno, nien­te di diverso da centinaia di altre volte.
Quella mattina ero lì, certo. Faccia da quattordicenne nel­la cappella lucente. La testa piena di pensieri. I più dei quali non spirituali. La voglia di fare. La preoccupazione di ap­parire. La tensione di vincere. E poi ragazze. Studi. Ami­ci. Pallone. Ero lì. Forse per un attimo diedi retta a chi mi aveva consigliato. Chiesi un po’ di luce. Di essere aiutato a credere. Una spinta, almeno.
Quello che successe dopo (ma quale dopo?) non è raccon­tabile. Almeno da me. Adesso. Con le parole. È come rac­contare di essere stato trasportato altrove. Stando su quel­la panca. Di essere stato travolto. Pur essendo, per la prima volta, completamente presente a me stesso. Di essere stato in una condizione sublime. Di essermi dimenticato di me stesso. Per ritrovarmi. Finalmente.
Ero sopra un’onda. Grande. Maestosa. Misteriosa. Un’on­da che mi spingeva avanti. Oltre dove volessi andare. Mi impediva di frenare. Controllare. Ragionare. Ero in un tem­po astratto. Senza rumore. Senza colore. Senza odore. Ero nella pienezza di uno stato vitale. Dove tutto era possibi­le sentire. Vedere. Odorare. Ero fuori di me. Con la possi­bilità di essere me stesso. In modo pieno. Vero. Sereno. E, straordinariamente, immoto. Non avevo voglie. Non face­vo assolutamente nulla. Né con la testa. Né con il cuore. Né con il corpo.
Ero. Stavo. Esistevo. Partecipavo della Realtà. La Real­tà mi lasciava entrare nel suo mistero. La Realtà mi si ri­velava senza dir niente di sé. Viaggiavo senza muovermi. Contemplavo senza capire. Amavo senza sentire. Eppure era tutto autentico. In una coscienza nuova del mio essere. Del mio essere al mondo.
Fui ritratto da una voce. Non la dimenticherò mai. Mi chiamava. Da fuori di me.
Fuori dalla tenda!
Fuori dalla tenda!
Ci misi molto a rassegnarmi. E poi uscii. Tutto era ancora lì. L’altare. La panca. L’odore di cera. Il pavimento lucido. La porta in legno massiccio. Il lungo corridoio piastrellato. Solo la luce era diversa. Più piena. Più calda. Più gialla. La luce del pomeriggio. Avevo saltato incontri. Pranzo. E an­che il dopo. Nessuno sembrava preoccuparsi di me.
Io aveva il cuore pieno di un urlo strozzato. Avevo voglia di gridare. Di cantare. Di saltare. Come un ossesso. Avrei voluto spalancare le porte. Scuotere il mondo. Togliere il velo. Dovevo assolutamente parlare con qualcuno. Ma tut­ti stavano in silenzio.
Corsi da don Umberto. Dovetti aspettare il mio turno. Tre quarti d’ora. Poi uno mi chiese di passare avanti. Glielo con­cessi a malincuore. Spalancai la porta della stanzetta Non ne potevo più. Don Umberto mi accolse. Mi fece parlare. Se­reno. Tranquillo. Sorridente. Non strabuzzò gli occhi. Non mostrò stupore o commozione. Mi disse di conservare l’ac­caduto nel mio cuore. Di non agitarmi. Di assaporare quel che era successo. Perché era successo. Sì. Non era un’illu­sione. Un incubo. Un malore. Era successo qualcosa. Che non era merito mio. Era volontà di qualcun altro. Ero tur­bato. Dalla sua quiete. Dal dubbio di non avergli spiega­to l’accaduto. Dal timore che mancasse qualcosa. Capivo. Qualcosa, anzi molto, anzi tutto mi sfuggiva.
Improvvisamente mi trafisse. Con una domanda.
Hai ringraziato?
I dieci lebbrosi. Io ero uno dei nove. Balbettai qualcosa. Cercai di uscire il più presto possibile. Corsi in cappella. Non trovai né le parole né il modo.
Rimasi lì come uno scemo. Pieno, questa volta, solo del mio vuoto.
Di questo vuoto vivo, giorno dopo giorno. Rincorro quei momenti di esistenza assoluta. Non ho più trovato quel­la pace e quella pienezza. Non me la sono più meritata. A volte ne sento i riflessi. Sono piccoli. Ma inequivocabi­li. È quando esco da me stesso. Per brevi istanti. È quando riesco a mettermi tra parentesi. Quasi per caso. È quando smetto di pensare e di voler capire tutto. A tutti i costi. È allora che qualcosa di quella grande onda si rivela. In lon­tananza. Ne sento la forza. Ne sento l’umido. Ne intrave­do la spuma. Sono attimi. Dettagli. Soffi. È molto di più di ciò che serve per vivere.



Come dicevo con Marco Pogliani ci siamo conosciuti da ragazzi. Io qualche anno di più. Stesso quartiere, via Faravelli si incrocia con via Marcantonio Colonna dove abitavo, stessa parrocchia, oratorio, campo sportivi, cinema. Al liceo Beccaria era con mia sorella Silvia, i nostri genitori si conoscevano. Quando ha cambiato quartiere, sempre in zona Fiera, ci siamo ritrovati nelle attività di un centro culturale e di formazione per studenti liceali. Io studiavo lettere in Cattolica, lui, qualche anno dopo, pure. Dopo la laurea mi sono trasferito a Roma a studiare teologia, poi il militare, poi ancora teologia, e ci siamo un po’ persi di vista: allora non c’era posta elettronica, facebook o altro: quando si cambiava città era normale perdere un po’ i contatti. Poi la mia ordinazione a Roma, Pamplona, Verona e il Veneto… Quando sono tornato a Milano ci siamo incontrati qualche anno fa alla Mondadori alla presentazione di un libro di un comune amico. Il suo primo romanzo per me è stata una sorpresa inaspettata e grata.  Leggerlo è stato come rivedere un amico dopo una vita passata in luoghi diversi e ascoltarlo per ore a  raccontare la sua storia, nella quale in buona parte mi ritrovo, per somiglianza e abitudini, perché è la storia di una famiglia cattolica milanese, è la storia di un periodo d’Italia e di una passione lavorativa e civile che ho visto anche nei miei genitori e parenti, un’epoca che è anche la mia.

La Milano della nebbia invernale e del caldo estivo, le vacanze con il culto della montagna e i riti materni per favorire ai figli i benefici del mare e proteggerli dalle sue insidie. La Milano di Schuster e dei preti ambrosiani, dell’imprenditorialità che sa conoscere anche le sconfitte e riprendersi, del lavoro ben fatto e ordinato. La Milano degli anni settanta inquieti e violenti; le esperienze adolescenziali dei primi amori, delle prime libertà e disobbedienze, dell’autorità paterna e materna che le orienta, e della goliardia studentesca con la riflessione sul valore di quelle bravate, spesso inconsapevolmente violente, e quindi la presa di distanza come segno di maturazione. Lo stadio, le feste. Gli ideali di influenza sul mondo. Il dolore che attraversa una famiglia che si direbbe fortunata dal punto di vista della riuscita sociale. Leggendo Padri, di Marco Pogliani, (Mondadori, 2013, pag. 271, euro 18,50) ci si sorprende a contemplare come la croce di Cristo abbia attraversato una famiglia credente e unita, in modo umanamente incomprensibile, e cristianamente vissuto nella semplicità del silenzio di preghiera. Tutto quanto recepito e sentito e sofferto, senza alcuno sconto. Mi è tornato alla mente quello che mi raccontava un anziano prete di un paesino della campagna veronese, dopo tanti anni di esperienza e visite assidue a tutte le famiglie dei tanti paesi di cui era stato parroco: “Andrea, ricordati che in ogni famiglia c’è una croce, e se non la si vede, vuol dire che è ancora più grande”. Il romanzo di Marco commuove e fa sorridere, come la grande letteratura. Ti lascia l’idea che la tua vita, anche la tua, è un romanzo. Mi ha ricordato che san Josemarìa Escrivà, diceva della vita ordinaria che poteva da prosa diventare poesia, endecasillabo,  se la viviamo con amore e con fede. Ecco, Marco ha saputo tradurre in poesia la prosa della sua storia, forse perché già nel viverla l’aveva trasformata così, in poema eroico. La scrittura fatta di frasi brevissime, a volte solo di una parola, evocativa, come colpi di pennello che tratteggiano un quadro, come colpi di scalpello che liberano la statua e l’esprimono. Come accordi di una mano sulla tastiera a compiere la partitura. Non disturba, anzi scorre, fluisce. Ho usato l’indirizzo mail che c’è in quarta di copertina, ci siamo salutati, gli ho chiesto un capitolo da mettere su questo blog. (inauguro così la sezione “finestre sui libri”). Tanti avrei potuto chiedergliene, che mi sono piaciuti, che tratteggiano personaggi protagonisti, come quelli della famiglia Pogliani, o minori ma indimenticabili, come lo zio Enrico o lo “zio Paolo”. Brani che raccontano la guerra, la povertà, la lotta contro le storture delle resistenze ai cambiamenti, negli ambienti di lavoro. Ma dovendone scegliere solo uno, gli ho chiesto quello che più mi ha folgorato e commosso, che avete apena letto e che si intitola Chiamata. Mi azzardo da prete a interpretare quell’episodio come un esperienza mistica,di quelle cosiddette normali. Di quelle per cui gli esperti dicono: tutti siamo chiamati alla mistica. Avvenuta a quattordici anni, e che ha segnato in positivo tutta la sua vita successiva. Lo vedo come una riprova dell’azione di Dio che segue ciascuno di noi e gli fa presente la sua chiamata a essere suo discepolo, nella vita normale, ordinaria. Non mi consta che quell’episodio lo abbia portato a scoprire una chiamata specifica ad una determinata appartenenza ecclesiale, a una specifica missione. E’ rimasto cattolico semplice, chiamato alla santità nel matrimonio e nel lavoro, nella vita sociale: ad amare i familiari, a spendere i talenti, a sostenere, a cambiare il mondo. E’ quello che Dio aveva detto a tutti nell’Antico Testamento in un modo, e nel Nuovo testamento in altro, nuovo. e donandoci la sua vita trinitaria per viverlo davvero. Il Concilio Vaticano II lo ha ricordato: tutti chiamati a essere santi nella normalità della propria vita, tutti possono vivere la pienezza del Vangelo, senza cambiare posto. Da ragazzi era frequente che ci invitassero a fare tre giorni di ritiro spirituale. Io ne ho fatti con la parrocchia, l’azione cattolica, i salesiani di cui frequentavo il liceo sant’Ambrogio, quelli predicati da sacerdoti dell’Opus Dei. Anche Marco ne avrà fatti più d’uno. Dal dettaglio che racconta del pranzo saltato credo che l’episodio della chiamata, sia avvenuto in uno di questi periodi di raccoglimento. Anch’io partecipai ad un paio di ritiri  predicati proprio dal don Umberto che lui cita. Prete già citato da Leonardo Mondadori nel suo libro scritto con Vittorio Messori: Conversione. La sua, aiutato da don Umberto. Non so se in quei giorni c’ero anch’io. Se si, non mi accorsi di nulla. Lo vengo a sapere solo adesso dal suo romanzo. Poi come predicatore ne ho guidati vari. So quindi per esperienza che Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, agisce, aiuta, parla, cambia, commuove, prende. In modo del tutto personale, come racconta Marco, e imprevedibile, e libero. Penso che Marco abbia sentito il bisogno di raccontare la storia della sua famiglia e della sua vita per un senso di gratitudine. Ai suoi genitori e nonni, parenti e amici e a Dio che attraverso di loro, e anche direttamente in quel modo difficilmente spiegabile e indelebile, gli si è rivelato come Padre. E la cui traccia benefica ha illuminato tutta la sua vita successiva.

3 pensieri su “PADRI, il primo romanzo di Marco Pogliani e CHIAMATA il suo capitolo più bello”

  1. Giulia dice:

    Davvero molto chiaro anche se personale.
    Viene voglia di sperimentare visto che sembra il frutto di una ricerca interiore che sgorga e vuole risposte ("ero lì, certo…").
    Sembra anche un itinerario, ripetibile.
    Eloquente l'immagine.
    Grazie.

  2. Il card. Ravasi ha chiesto su twitter spunti per una conferenza sul Padre programmata per stasera a Padova. Ho consigliato questo libro di Marco Pogliani. Tu puoi consigliare, se ne convieni, il capitolo più bello ripreso nel tuo blog.
    Bruno.

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