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LA GENTE VUOLE CHE TU PREGHI PER LORO, CHE ASCOLTI LORO E LA STORIA CHE DIO SCRIVE ATTRAVERSO DI LORO, mons. Fernando Filograna nominato Vescovo di Nardò Gallipoli racconta la sua esperienza di prete

Ecco lo stemma che don Fernando ha scelto per il suo episcopato, che avrà inizio con l’ordinazione del 14 settembre, nel giorno della Esaltazione della Santa Croce, nella Cattedrale di Lecce, alle 17.30. Il nome di Cristo al centro, le spighe simbolo dell’Eucaristia e del raccolto abbondante dell’apostolato che lo aspetta, la stella della vocazione, le parole tratte dalla lettera ai Romani (8,28): Omnia in bonum: diligentibus deum omnia cooperantur in bonum. Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio. Piaceva a san Josemarìa Escrivà sintetizzare in questo modo le parole di san Paolo, e ripeterle così, come giaculatoria, per indurre alla speranza e alla certezza della presenza della provvidenza di Dio che orienta al bene tutte le cose. Per aiutare a conoscere don Fernando, e per dare una gioia a coloro che lo conoscono, pubblico qui un testo trascritto da una sua conversazione che tenne durante uno degli Incontri Estivi per seminaristi diocesani che, con Iniziative culturali Sacerdotali, organizziamo nella zona di Roma. Quello del 2004 si svolgeva a Sacrofano. Nel rileggerlo oggi a distanza di anni, vi si apprezzano tante delle caratteristiche del prete che il papa Francesco vuole per la Chiesa: aperto, che prega, che esce incontro alle pecorelle del suo gregge che sono disperse. Colpiscono, adesso le parole con cui descrive quella deve essere il rapporto con il proprio Vescovo del prete: vicinanza, affetto, devozione. I laici che lo hanno letto mi dicono che serve molto anche a loro, non è un testo specialistico per sacerdoti: parla di amore di Cristo e per la sua Chiesa, di virtù cristiane che tutti siamo chiamati a vivere.
Riporto un’immagine del Crocifisso ligneo della Cattedrale di Nardò, del secolo XIII, che don Fernando ha scelto come immagine della sua ordinazione episcopale.

Le esigenze attuali del ministero parrocchiale e la formazione umana del candidato al sacerdozio 

Mons. Fernando Filograna

Comincio con delle piccole osservazioni. Intanto non so come mai sia venuto qua; forse il Signore si è servito di tante situazioni…, quando sono stato invitato ero preso da tanti impegni e ho risposto di sì senza rendermi conto di ciò che stavo dicendo. E questo succede a noi parroci che abbiamo sempre tante cose da fare, la gente che ti assilla; e dovremmo farle bene queste cose, ma a volte succede che ti senti inadeguato: e poi il Signore si serve di te, senza sapere come, il Signore porta avanti la Storia. Poi ho cominciato a pensare a questo schema  e a che cosa poteva essere utile dire a voi questa mattina e non vi nascondo che ho provato e riprovato a fare diversi schemi, poi ho gettato via tutto e mi sono detto che qui bisogna dire qual’ è la nostra vita di sacerdoti.
Io vengo dal Seminario, sono stato per un po’ di anni, cinque, padre spirituale e per tredici anni Rettore del Seminario minore, da 8 anni sono parroco; quindi conosco bene anche la vita del Seminario e sento una passione particolare per le vocazioni.

Dunque mi sono domandato: cosa può essere utile dire ai seminaristi? Comincio col dire com’è iniziata la mia avventura in parrocchia, che cosa ho trovato, quali sono  le difficoltà, e poi, pian piano, tratteggio il tema che mi è stato affidato.

Dopo 18 anni di vita di seminario mi sono trovato in parrocchia, in una situazione per cui tutte quelle cose che dicevo ai seminaristi dovevo metterle in pratica. E che cosa ho trovato in parrocchia? Una progressiva e sistematica scardinazione del Cristianesimo. Anche voi vivete in parrocchia e, lo vediamo, il fenomeno religioso è diventato un prodotto da consumare, la religiosità viene ridotta a delle pratiche: esteriorità, molta emotività; c’è stato il fenomeno interessante della pietà popolare, l’ostacolo per la fede per entrare nel mondo della cultura – si vuole sempre tenere la fede lontana, perché la cultura è svuotata della trascendenza. Anche questo continuo minare i capisaldi  dell’umanesimo cristiano, la vita, la famiglia. Si dà frequentemente il caso di cristiani che frequentano la Chiesa, ma che poi si trovano a pensare, come la maggior parte, così come pensano i mezzi di comunicazione sociale, e quindi non fa problema mettere in discussione il matrimonio, non si valuta l’opportunità di essere più aperti alla vita, se avere pochi o molti figli,ecc.; eppure si tratta di cristiani, benché non vengano in chiesa tutti i giorni. Ho trovato questo divario tra la fede e la vita, che camminano per conto proprio senza riuscire ad incontrarsi.
Da quando poi il Vescovo mi ha chiamato al servizio della Diocesi per coordinare il lavoro dei sacerdoti, ho approfondito il rapporto con i sacerdoti e, anche qui, mi sono trovato a contatto con sacerdoti che sentivano questo pessimismo, che correvano il rischio di chiudersi nel piccolo gruppo dove uno si sente ben protetto, stimato, ma con questa fatica di venir fuori per andare incontro agli altri: non tanto per motivi di inadeguatezza,  ma piuttosto per pigrizia, per mancanza di slancio apostolico, di vibrazione spirituale e, quindi, questo tirare avanti in modo rutinario  la vita della parrocchia.
Davanti a questo scenario, che cosa ho cominciato a fare?  Mi sono convinto che non si poteva rimanere sulla difensiva – lo Spirito ci spinge ad agire con coraggio apostolico, con una maggior creatività pastorale –  e che il Signore continua ad operare attraverso di noi; e allora bisogna credere a questo: il Signore si serve di noi come si serve del fango per dare la vista a un cieco. Ho cominciato a pensare che, davanti a questo scadimento dei battezzati, propensi a una religiosità intrisa di emozioni, a volte anche di superstizione, alla ricerca del sensazionale – perché la gente viene assecondando la cultura dell’immagine, non cerca il Signore, ma vuole commuoversi, provare sensazioni – bisognava offrire qualcosa di più forte, una spiritualità fondata sulla Parola di Dio, sui sacramenti, sulla Eucaristia, sulla Penitenza, sulla preghiera personale; sono partito dal rilancio di tutto questo: mi dovevo difendere, perché la mia vita spirituale non deve scadere e poi dovevo osare, chiedere dalla gente qualcosa di più.
Io devo ringraziare l’Opus Dei che, attraverso la Società Sacerdotale della Santa Croce, mi ha permesso di avere sempre una formazione permanente e, quindi, di essere sostenuto nel mio cammino spirituale, in questo piano di vita, ogni giorno: raccogliermi in orazione, nella lettura del Vangelo e nella lettura spirituale, ecc.: tutti mezzi che ti portano a non battere la fiacca, a non scendere di tono. E questo, se lo faccio io, perché non posso proporlo alle persone?
E quindi ho incominciato a impostare la vita pastorale mosso sia da questa vita interiore che mi sforzavo di vivere, sia dal progetto pastorale diocesano e parrocchiale, chiedendo alle persone una maggiore attenzione alla Messa quotidiana: alle 7 di mattina propongo la meditazione quotidiana – e attualmente viene un buon gruppo di persone -, poi, pian piano, ho incominciato a diffondere la lectio divina, l’ascolto della Parola:  stampare delle schede e affidarle alle persone che venivano dei vari gruppi perché le portassero di casa in casa; fare piccoli centri d’ascolto dove si commentava il Vangelo della domenica, e poi i ritiri spirituali; distribuire nella parrocchia quelle famose “antenne di zona”, quelle persone sensibili, legate all’apostolato della preghiera e altri movimenti, che portavano la parrocchia nella strada e portavano la strada e le famiglie nella parrocchia e mi informavano circa situazioni di disagio, di povertà, di sofferenza.
A loro chiedevo di portare avanti il “monastero invisibile”, cioè invitare le persone a pregare, a offrire la loro sofferenza, la loro solitudine, per la santità dei fedeli e del clero e per le vocazioni e poi, dopo tutto questo, le attività normali della parrocchia: il catechismo,  gli itinerari di iniziazione cristiana, il gruppo famiglie per le diverse età, ecc.. Mi sembra che, pur respirando questo clima di soggettivismo e di influssi fuorvianti, la gente ha risposto bene, perché nel cuore della gente c’è sempre il desiderio di Dio, di incontrare il Signore in modo meno massificante.
Ho scoperto davvero la bellezza della comunicazione: scendere dal piedistallo, – io sacerdote da una parte e la gente dall’altra parte -; non più maestro e discepolo, ma ricevente e trasmittente: ognuno di noi ha una sua ricchezza spirituale, che deve mettere al servizio degli altri e essere ricevente e trasmittente. La gente vuole che tu preghi con loro, che tu ascolti la parola del Signore, che ti confronti, che abbia tempo per ascoltare le loro esigenze, ma anche la storia che Dio scrive attraverso di loro; quindi in mezzo alle persone, sapendo che c’è una mediazione salvifica: Dio si serve di te per toccare il cuore delle persone, per invitarli alla conversione e quindi per comunicare la grazia. Ora è vero che molta gente considera la parrocchia come un centro di servizi, viene a chiederti il certificato di idoneità per chiedere i sacramenti, la raccomandazione: sono quelle persone che ancora fanno fatica a considerare la parrocchia  come famiglia, come insieme di credenti che si ritrovano insieme perché si vogliono bene. D’altra parte ci sono fratelli che accolgono questa provocazione e hanno incominciato ad essere fermento: vanno a Messa ogni giorno, fanno meditazione, fanno apostolato porta a porta, dove lavorano, nelle strutture in cui agiscono, ti portano persone che poi si accostano alla confessione e alla direzione spirituale.
Mi sono accorto che noi a volte indugiamo, ci sentiamo come specialisti della dottrina cristiana e la trasmettiamo freddamente, senza far scoprire quel calore che la dottrina cristiana provoca dentro di noi e che poi vuole provocare nel cuore degli altri. Tutto questo mi ha fatto ricredere: se davvero noi sacerdoti, noi parroci, siamo appassionati della nostra vocazione, della nostra missione, riusciamo a smuovere il cuore delle persone; la gente vuole vedere che veramente crediamo, che siamo – come diceva il fondatore dell’Opus Dei – preti al cento per cento; vuole vedere che noi preghiamo insieme, che ci lasciamo convertire dal Vangelo, e che riusciamo a coagulare tutte quelle esperienze di fede che le persone attorno a noi fanno. Nel cuore di ogni persona ci sono frammenti di fede: noi dovremmo coglierli e sapere coagularli per poi stimolarli a crescere, evitando di lamentarci per quelle persone che non vengono mai in chiesa e di denunciare sempre le cose che non vanno. La gente non vuole che noi parliamo male dei nostri confratelli, vuole vedere persone contente, che ringraziano sempre perché c’e questa comunicazione di fede, che sanno creare un clima spirituale idoneo per questa comunicazione della fede, di cui dobbiamo essere esperti, un clima di stima, di accettazione, di simpatia: rapporti veramente personali, non funzionali del tipo: “non sai chi sono io, io sono il parroco”. Le persone non vogliono questo, vogliono una persona che insieme con loro cammina per diventare santo, lotta e poi spezza la Parola di Dio, spezza l’Eucaristia per loro. Quindi, vivere così ti dà una carica, ti permette di superare tanti scoraggiamenti e tanti momenti di solitudine.
Ora qualche riflessione che ricavo dalla lettura della mia parrocchia, della mia esperienza e da quello che dicono i documenti della Chiesa, come quello recente della CEI:  “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”, molto bello. Poi vi consiglio altri documenti della Congregazione per il clero: “Il presbitero, maestro della Parola, ministro de Sacramenti e guida della comunità”; un altro “Il presbitero, pastore e guida della comunità parrocchiale” e altri documenti fondanti come la “Pastores dabo vobis”  e “Novo millennio ineunte”: sono i fondamenti della nostra spiritualità e dell’argomento che stiamo trattando oggi.
In quanto sacerdoti, noi siamo persone poste dinanzi al mistero, che è grande rispetto alla nostra piccolezza; l’obiettivo, quindi, non è raggiungere nella nostra vita quello stato di benessere, per cui devo stare bene, mi devo gratificare: la gioia nostra, piuttosto, è contemplare questo mistero, lasciarci prendere dal suo fascino: qui attingiamo le coordinate per la nostra missione. Noi non potremo mai raggiungere la pienezza della nostra maturità umana, cristiana e sacerdotale, se non ci poniamo questo obiettivo: di fronte al mistero, che mi spinge a donarmi e a sacrificarmi, a vivere la spiritualità del quotidiano, delle piccole cose.
La pastorale si può anche inventare facilmente; noi sacerdoti corriamo il rischio della ripetitività, l’essere come dei distributori, cioè celebrare la Messa quotidiana e sbrigare  le pratiche in modo abitudinario, però, quando fummo ordinati sacerdoti, il Vescovo ci disse “Vivi il mistero che è posto nelle tue mani”: noi sacerdoti non possiamo amministrare la grazia del Signore come se fosse qualcosa di solamente umano. Il sogno di Dio è far fiorire una comunità che sia la riproduzione della chiesa-mistero; cioè, nelle nostre comunità dovremmo ripresentare quello che è la Chiesa in grande, capaci di tenere insieme tutte le persone attorno a Cristo il Risorto, e capaci di anticipare il futuro di Dio, cioè questa profonda comunione che poi diventa servizio, missione: questo il sogno di Dio e questo dovrebbe essere il nostro sogno.
Certo i contesti in cui viviamo sono cambiati e in continua evoluzione;  oggi è importante uscire dagli schemi della pastorale tradizionale: c’è un mondo che ci provoca e noi ci dobbiamo presentare a questi nuovi nodi dell’esperienza umana con competenza e, oltre alla santità personale e alla vita interiore, anche con delle abilità. In questo mondo che cambia c’è una nuova percezione del tempo, la gente è come bloccata sul presente, senza un passato e un futuro: l’oggi è diventato una ripetitività banale, cioè stare bene oggi, godere oggi, fare quello che mi piace.
Noi veniamo da una storia sacra, dove Dio ha operato prima, sta operando adesso e opera nel futuro e quindi non possiamo diventare schiavi della cultura del presente, come se fosse unico, ma dobbiamo alimentare il presente dandogli questa apertura al passato e al futuro. Anche per quanto riguarda il problema della verità: oggi si considera vero ciò che piace, ciò che va di fare -qualcosa di soggettivo -, mentre noi siamo portatori di una verità assoluta e oggettiva che dobbiamo presentare.
Così anche il problema della rivoluzione della comunicazione: viviamo in un mondo di informazioni che ci vuole rendere schiavi, fruitori della comunicazione, ma non riusciamo più a comunicare perché non c’è dentro di noi quella ricchezza di conoscenze; invece la cultura di oggi ci vuole fruitori passivi. Anche la dimensione multiculturale della nostra società viene utilizzata per presentare la nostra religione come una tre le altre, mentre questo confronto potrebbe svilire la bellezza della nostra religione cristiana. Inoltre, se prima le persone delle nostre parrocchie si identificavano attorno al parroco o al campanile, con tutta questa frammentazione della vita, oggi questa identificazione non c’è più: oggi ci sono i supermercati, gli impianti sportivi, altre forme di aggregazione dove la gente si diverte e trova il modo di svagarsi dai problemi, e la parrocchia  rimane un centro di servizi religiosi.
In questa situazione che noi parroci viviamo ogni giorno cosa possiamo offrire alla gente? Intanto, dovremmo essere coloro che puntano gli occhi sempre a Dio, servendo le persone con le nostre mani e ascoltando i loro bisogni e poi cercando di aprirli alla trascendenza, al Signore. Siamo chiamati a questa capacità di ascolto; le persone oggi vogliono essere ascoltate: anche se a volte cercano solo uno sfogo, dobbiamo permettere loro di parlare. Riusciamo a maturare questa capacità d’ascolto se ci mettiamo davanti a Dio e Lo ascoltiamo. Se noi siamo capaci di ascoltare il Signore –  e quindi la meditazione, la lettura del Vangelo con apertura del cuore –  riusciremo anche ad ascoltare le persone, altrimenti facciamo fatica; la falsa relazione con Dio falsifica anche la relazione con le persone. E, allo stesso tempo, come tendiamo a parlare con le persone, così con Dio: parliamo sempre noi e lo ascoltiamo poco.
Le persone, venendo in parrocchia, vogliono trovare relazioni cariche di significato, attenzione soprattutto ai più bisognosi, ai poveri, parrocchie non chiuse, riservate a una cerchia di persone, ma aperte: ciascuno vuole trovarsi a suo agio, non sentirsi un intruso; le persone vogliono venire in chiesa e trovare calore, comprensione, perché fuori non trovano queste qualità.
Un’altra scelta che ci deve contraddistinguere come cristiani, come sacerdoti è che noi dobbiamo portare dentro il fuoco della missione e dobbiamo comunicarlo alle persone che vengono: se non c’è una esperienza ricca di vita interiore non comunichiamo niente. Leggo una frase di Divo Barsotti: “Gran parte della predicazione non ha più successo perché è diventata come la dottrina, non è più una testimonianza di vita. Negli apostoli, ma anche nei grandi sacerdoti che ha avuto la Chiesa, la parola non era soltanto la trasmissione di una dottrina concettuale, ma  testimonianza di una vita nuova che il Cristianesimo e il sacerdote portano nel mondo. Troppo spesso siamo ripetitori di luoghi comuni o anche di cose grandi, poche, ma ripetere non basta all’efficacia del ministero. Quello che s’impone oggi al sacerdote è di rendersi credibile e questo vuol dire credere veramente: cercando di essere uguali agli altri noi perdiamo di credibilità e di efficacia”.
Quindi: credere veramente! Il nostro annuncio deve essere frutto di testimonianza, altrimenti comunichiamo il vuoto, siamo dei canali secchi, non trasmettiamo lo Spirito, ma le nostre certezze; per cui vogliamo le persone legate a noi, vogliamo il consenso, che ci cerchino; ma non perché  abbiamo dato Dio, piuttosto, forse, perché le abbiamo soltanto attirate a noi.
Bisogna quindi superare un rischio; perché c’è questa tentazione: come se i cristiani  fossero delle persone attratte da Cristo mentre gli altri sono attratti dagli uomini, dai problemi degli uomini; senza sapere che il Signore ci ha dato una grande testimonianza: Gesù era l’uomo contemplativo, colui che si incontrava con il Padre e che però camminava sulle vie degli uomini, si preoccupava delle persone e quindi era al servizio dei bisogni degli uomini. Allora non c’è questa divisione – come nella parabola del buon samaritano – tra gli uomini che si occupano del Tempio di Dio e gli altri, invece, che si occupano del poveri. Noi ci occupiamo appunto dell’uomo che è povero, povero di Dio, ma che è anche bisognoso di amore.
Questa dunque è la cultura in cui ci muoviamo, queste sono le scelte che contraddistinguono la nostra vita cristiana.
E adesso: come agire nella parrocchia? La parrocchia è la Chiesa  che vive in mezzo alle case degli uomini, la Chiesa che si avvicina alla gente, la Chiesa che vive questi rapporti di prossimità, perché nella parrocchia noi possiamo stabilire questi vincoli concreti, di conoscenza e di amore, possiamo farci carico dei bisogni delle persone e quindi, come Gesù cerca tutti e ciascuno, così, nella parrocchia, noi siamo al servizio di tutti e di ciascuno. La parrocchia ha questa responsabilità, come comunità di cristiani, di tessere trame di solidarietà, di essere figura di una Chiesa semplice e umile che rende accessibile il Vangelo, come una comunità che s’incontra intorno alla Eucaristia e che diventa forza di aggregazione in forza della stessa Eucaristia: e l’Eucaristia mi invia.
Dicono i vescovi italiani: “Dobbiamo ridisegnare il volto della Parrocchia”, dare effettivamente un volto missionario; dobbiamo tornare a concentrarci su quella che è la missione fondamentale: l’evangelizzazione e quindi non possiamo fare una pastorale di conservazione, cioè fare quello che abbiamo fatto sempre, tenere unite le persone che abbiamo fino ad oggi invitato, ma dobbiamo dare queste due dimensioni: di una Chiesa che s’incontra attorno all’Eucaristia e che poi sente una spinta propulsiva e esce nel mondo con una dinamica tesa a coinvolgere quanta più gente possibile attorno all’altare.
Come comunicare la fede? Bisogna contagiarla da persona a persona; bisogna impostare la  parrocchia sulle relazioni personali; il Vangelo va portato non solo utilizzando i mezzi di formazione consueti come la lectio divina e i vari cammini di fede, ma alle persone di casa in casa, con quella accoglienza gioiosa, cordiale, gratuita; l’annuncio deve essere fatto con un tratto amichevole. Io ho imparato dalla spiritualità dell’Opus Dei  l’apostolato di amicizia e confidenza, comunicare la fede prima con un rapporto di amicizia, di dialogo, cogliendo anche l’occasione delle vicende che le persone vivono, e poi lentamente arrivare alla confidenza, aprire orizzonti, rompere queste corazze che le persone si sono create. Quindi una missione fatta di scambio di esperienze, di solidarietà e di dialogo.
Si evidenzia allora la prima qualità che dovrebbe avere un parroco, una capacità di simpatia. La gente non vuole vedere preti che siano impeccabili nei riti, nei tariffari, nelle processioni, che si occupano di case e soldi, sacerdoti che guardano dall’alto in basso,  che non considerano l’altro per quello che è e che maltrattano le persone; la gente ascolta si questi sacerdoti, ma li considera lontani, non li stima e li ritiene insignificanti.
Quando le persone parlano dei preti del passato mettono in evidenza, la loro povertà, la loro umiltà, la loro disponibilità, quando invece parlano dei preti di oggi dicono, spesso, che parlano dei soldi, della carriera, del prestigio, che parlano male del Vescovo e degli altri confratelli…: vuol dire che noi sacerdoti non stiamo trasmettendo qualcosa di bello, succede purtroppo che la mancanza di formazione permanente, la mancanza di fraternità tra noi sacerdoti, l’isolamento e il mancato rapporto filiale con il Vescovo – perché è importantissimo avvertire il Vescovo come un padre, avere con lui un rapporto personale -, i problemi personali, l’amarezza di alcune esperienze, l’abbandono di una certa vita interiore, tutto ciò io credo che sia alla base di quell’ attivismo vuoto che tante volte troviamo nei sacerdoti. Un sacerdote si inaridisce quando non vive delle relazioni forti con i confratelli, con il Vescovo e con la comunità, allora corre sempre, si trova a fare mille cose, ma non ha da comunicare niente, non può comunicare perché non ce l’ha dentro, e poi nasconde segreti progetti di riscatto.
 Purtroppo quando manca ricchezza spirituale e umanità nel sacerdote, vediamo che diventa una figura ambigua e, prima o poi, esplodono i problemi con esiti dolorosi, perché l’amore per Cristo entra in conflitto con altri investimenti affettivi, uno si lega alle persone in modo disordinato, si lega alle opere che sta facendo e alla sua immagine; quando succede questo, si nota come il sacerdote sacrifica tutto ai suoi progetti e li scambia per amore al Signore, identifica il successo per il successo con il Regno, così sbagliando perché poi va alla ricerca dei consensi, restringendo il campo della fede a quello dei suoi interessi, come se lui fosse un manager, e si trova ad essere, per così dire, socio di una società di cui Dio è solo un azionista con gli altri e non è quel grande Mistero di fronte al quale noi ci troviamo. Poi succede che, poiché la parrocchia vive in una realtà sociale organizzata, si ha a che fare con le autorità locali e le persone influenti e noi sacerdoti corriamo il rischio di accaparrarci la simpatia delle persone che contano e incominciamo a giudicare, a classificare e a non avere uno sguardo penetrante.
La gente vuole vedere in noi uomini che hanno maturità, vogliono vedere un altro Cristo, lo stesso Cristo, persone ancorate nell’amore a Dio, uomini che, come Gesù, lottano per la verità, sanno sfidare le leggi, accettano di stare accanto alle persone emarginate, riescono ad accarezzare quelli che nessuno prende in considerazione, uomini che stanno nella storia, ma con amore, non stanno alla finestra. È facile giudicare, dire ciò che va e ciò che non va, lamentarci sempre, ma noi sacerdoti non dobbiamo alimentare questi atteggiamenti di diffidenza, di indifferenza verso quello che accade e verso le persone, non possiamo avere uno spiritualismo disincarnato.
Noi curiamo la liturgia, e questo è importante perché è il momento in cui entriamo in contatto con il Mistero, ma quante volte invece di pensare al mistero, curiamo la liturgia per noi, e noi diventiamo i protagonisti e attiriamo l’attenzione su di noi, e in quel momento non è più il Signore che vogliamo  celebrare, ma facciamo un’autocelebrazione. La gente vuole che siamo uomini che trasmettano l’amore di Dio per l’uomo; è vero che la nostra storia è corrotta, piena di peccato – anche noi ci troviamo con le sofferenze dell’uomo -, eppure Dio guarda sempre con amore l’uomo e il sacerdote, come Dio, deve nutrire sempre simpatia verso tutte le persone: deve essere un uomo che investe un amore purissimo, concreto, verso tutte le persone.
Tutti oggi restano ammirati dalla figura del Papa che sfida chiunque, ama veramente le persone: un uomo veramente innamorato del nostro tempo. Così noi: con la nostra vita, con i nostri sentimenti e atteggiamenti possiamo e dobbiamo rendere visibile Gesù che annunciamo come Redentore. Allora capacità di simpatizzare con le persone, non capacità di piacere,  ma di sentire compassione per la persone e disponibilità attiva e operante e farci prossimo e coinvolgere l’altro in questa esperienza di amore: amare con il cuore di Gesù e leggere ogni avvenimento e ogni persona dal punto di vista di Dio; stare nel mondo con questa passione.
Certo non è facile, perché se non abbiamo in noi questa maturità umana non possiamo entrare con questa simpatia. Qui ci sono dei rischi che noi corriamo, quando formiamo dei laici: invece di formarli con questa dimensione di persone che amano, le formiamo come persone clericali, che devono essere funzionali nella parrocchia, che “devono aiutarmi a portare avanti la pastorale” e non invece persone inserite nel mondo e nella cultura, ambiti che devono fermentare con il Vangelo. Stare nella storia con amore implica davvero una maturità e una santità che non si improvvisa. Maturità per noi significa scegliere liberamente e continuamente quelli che sono i valori oggettivi della nostra vita di uomini, di credenti e di sacerdoti; noi dobbiamo sempre, continuamente, scegliere e tornare a scegliere, dobbiamo continuamente perfezionarci.
Quando diventerete sacerdoti voi sarete configurati a Cristo che è perfetto Dio e perfetto uomo, pastore e pescatore di uomini e rassomigliare a Lui: dobbiamo avere tutte le qualità che aveva Gesù, come perfetto uomo. Pensate all’icona della lavanda dei piedi, Gesù serve e lava i piedi, compie questo gesto molto bello, poi, si ferma un attimo e chiede ai suoi discepoli se hanno capito il significato del suo gesto e conclude: sapendo queste cose sarete beati se le metterete in pratica.
 Mi piace trovare in questo episodio tre dimensioni: il sacerdote che agisce con il cuore di Cristo, con le sue qualità umane, che compie un’azione, che cerca di essere consapevole di questo mistero, e poi conclude…dovete fare così anche voi: scegliere. Sono le tre chiavi, le tre dimensioni, che ci permettono di raggiungere e di mantenere viva la nostra maturità, cioè l’azione, la consapevolezzae questa libertà: le tre dimensioni della nostra vita sacerdotale, noi siamo ministri della Parola, ministri dei sacramenti e guida della comunità.
Siamo configurati a Cristo pastore, seminatore, pescatore; in quanto ministri della Parola, siamo mandati per annunciare la parola di Dio, questo significa per noi avere una grande familiarità con la Parola, lasciarsi penetrare profondamente da questa Parola, essere dei perfetti discepoli e dei credenti, ma per poter essere questo, come si fa se non abbiamo uno sviluppo armonioso delle nostre qualità umane, come si può essere uditori della Parola e comunicatori se non abbiamo una capacità di ascolto, di comunicazione e di silenzio e di rispetto della Parola per non svuotarla, per non sostituirci alla Parola. Per essere ministri della Parola dobbiamo aver queste qualità umane, una capacità di ascolto, di comprensione, di riflessione, di silenzio, di accoglienza.
Ministri dei Sacramenti, noi agiamo in persona Christi, Cristo si offre al Padre e Cristo si offre ai fratelli: noi dobbiamo unirci a Cristo in questa offerta a Dio e nella nostra missione verso i fratelli e in questo contesto Gesù ci chiama amici. Non possiamo distaccare questo nostro servizio da tutte le vibrazioni della nostra personalità, da tutte le qualità che noi abbiamo.
Pensate un attimo a quanto è importante il nostro celibato. E’ vero che oggi ci sono testimonianze poco gioiose di sacerdoti che fanno pensare che il celibato renda meno uomini delle persone sposate; però vorrei pensare a tutte quelle persone che vivono bene questa dimensione, che accolgono il celibato come una decisione consapevole e  motivata sia sotto il profilo della esperienza di fede, sia sotto il profilo di una maturazione psicologico-relazionale: cioè il celibato è quella solitudine che viene abitata da Dio e dall’amore verso gli altri. Un cuore indiviso è una sfida che noi facciamo, per amare le persone come devono essere amate. Certamente corriamo il rischio dell’isolamento; quante volte noi sacerdoti se non viviamo bene il celibato, la dimensione oblativa verso Dio e verso gli altri, diventiamo persone che prendono decisioni in solitudine e facciamo fatica a confrontarci con i confratelli: non si riesce a comunicare in modo sereno, perché si vive male il celibato. La nostra non è una vocazione all’isolamento, la nostra è una solitudine visitata da Dio e dagli uomini.
Un altro rischio che noi corriamo è vivere la nostra vita come se fosse di seconda mano, che compensa ciò che manca nella prima vita: siccome la vita mi tratta male, siccome mi sento frustrato ho diritto a qualche consolazione: ad esempio uno che vive la sua povertà, ma con disagio e allora si crea le sue sicurezze e si ricorre alle compensazioni come ci si sentisse in difetto di qualche cosa. Non vivendo bene la nostra vita di donazione a Dio e agli altri, andiamo alla ricerca di soddisfazioni e poi quando queste soddisfazioni non le raggiungiamo, uno incomincia ad eccedere nel mangiare, nel bere e, anche se non risolve il problema, cerca di mascherarlo e di attaccarsi a delle forme di dipendenza: schiavo della televisione, non  riesce a liberarsi da rapporti non sempre sereni e liberi con le persone. Quando uno non ottiene quella soddisfazione adeguata, quel bisogno di dare e ricevere affetto, allora cerca forme alternative e quindi assistiamo alla testimonianza poco bella e poco serena di sacerdoti che non sono contenti del loro celibato, si lamentano sempre, non sono trattabili, figure antipatiche.
Un altro rischio ancora, quando non si vive bene il celibato, consiste nel non sentirci parte di una comunità e di un presbiterio. Il primo sintomo di una persona che non vive bene il celibato è che non si sente legato agli altri, ai suoi confratelli, la mancanza di un’appartenenza piena alla Chiesa in termini di gioia; quindi non simpatizziamo, non troviamo il tempo per stare con i confratelli; come si fa allora, quando mancano questi elementi, per esempio a esercitare bene il sacramento della Penitenza, a dare direzione spirituale? Perché se non siamo liberi dentro, se non abbiamo la delicatezza, il rispetto, questi sentimenti ordinati, non riusciamo a vivere il sacramento della Penitenza come momento salvifico, non riusciamo a trasformarlo in un incontro autentico del peccatore con Gesù; se noi ci confessiamo poco e male, non abbiamo neanche la passione di confessare gli altri. Perché, non sperimentando dentro di noi la gioia, non siamo in grado di trasmetterla agli altri; quanto affascina, invece, un sacerdote che si muove con disinvoltura, con sicurezza e che si comporta come una persona libera, senza lasciarsi condizionare dai capricci, dalle schiavitù degli impulsi.
Infine, un’ultima annotazione: il sacerdote guida la comunità come famiglia di Dio e cerca di valorizzare tutti i carismi. E oggi sappiamo quanto sia difficile guidare una comunità, cioè creare comunione, perché la cultura imperante divide. Pensate a questo mondo conflittuale, aggressivo, competitivo; e noi sacerdoti dobbiamo essere uomini di comunione, di riconciliazione, pacificati dentro e capaci di pacificare gli animi, capaci di rivolgersi a tutti: non solamente alle persone vicine, ma anche a quelle lontane, ai piccoli e ai grandi; e se non abbiamo questa fortezza dentro, la carità, la capacità di comunione, allora vedete i rischi che corriamo: per esempio, il non assumerci delle responsabilità, aver paura di sbagliare per cui restiamo sempre sul chi va là, conduciamo la parrocchia con una forma di falsa democrazia, non riusciamo a governare la parrocchia, per cui a volte ci lasciamo sopraffare, lasciamo decidere ai laici, ci mettiamo dietro a loro e abbiamo paura di andare incontro alla Croce, all’impopolarità, di non essere accettati. Quando invece una persona ha una ricchezza interiore, la capacità di vivere bene con se stesso e con gli altri, non si chiude in una cerchia di persone, riesce ad avere sempre come obiettivo la salvezza delle anime, ricorda sempre che Gesù è il Signore e a Lui dobbiamo portare la persone e non a noi, e quindi non spadroneggiamo, non scandalizziamo le persone, non le attacchiamo a noi in modo indebito, non mascheriamo una mancanza di rettitudine d’intenzione.
E questo si vede, ad esempio, nel rapporto molto bello e rispettoso verso il Vescovo: quanto è importante nutrire questo affetto, sapere che il nostro sacerdozio è legato al sacerdozio del Vescovo: un legame fatto di affetto filiale, di rispetto, di devozione, “è il mio Vescovo”, “è il Signore”. Bisogna evitare critiche, mormorazioni, ribellioni; pensate quanto sia penoso quando il Vescovo vuole proporti qualcosa e tu fai resistenza, ti rifiuti, ti ribelli, ostacoli; pensate anche ai modi eccentrici di agire da parte nostra, quando vogliamo sempre stare al centro e passiamo dei brutti quarti d’ora se le persone non apprezzano il nostro modo di fare, e così finiamo per mettere al centro noi e non il Signore.
L’ultima esperienza riguarda quella del limite, perché noi sacerdoti veniamo a contatto con la sofferenza della gente: la sofferenza spirituale, situazioni di peccato, la sofferenza fisica e quella legata alla fragilità umana; e in questi frangenti è importante che la gente ci senta vicini. Entrare in contatto con l’esperienza del limite e del peccato, del dolore degli altri: noi lo possiamo fare se siamo capaci di entrare in contatto con la nostra esperienza di peccato, di limite. Noi dobbiamo davvero avvertire che il fallimento, il senso di inutilità, le frustrazioni fanno parte della nostra vita: anche noi possiamo sbagliare, anche noi dobbiamo accettare la prova, la croce e Dio, pur essendo peccatori, si serve di noi. Quando la persona vive dentro di sé questa esperienza del limite e la recupera con la sua spiritualità e con la sua fortezza, allora diventerà forte e capace di dare forza agli altri; quando la gente trova un prete così trova una grazia, una grazia per tutti.
Io faccio questo augurio: che noi possiamo sprigionare questa simpatia verso le persone, questa ricchezza spirituale e umana che poi ci fa diventare strumenti della grazia e portare le persone al Signore.  
*          *          *
Il Relatore ha poi risposto ad alcune domande rivoltegli dai presenti:
DOMANDA
La ringrazio per il prezioso contributo che ci ha portato della sua esperienza, molto edificante. Credo che ci troviamo in un contesto in cui la persona è frammentaria, in cui si nega la fondazione ontologica della persona umana e si possono percepire certi sintomi di schizofrenia; mi sembra di cogliere due fenomeni nel contesto attuale. Il primo è legato a una certa forma imperante di neo-clericalismo con tutte le conseguenze. Il secondo fenomeno è legato a una rimozione pratica del Concilio Vaticano II: a livello di teorie, di pensiero, è considerato la Pentecoste della Chiesa, ma a livello pratico, a livello pastorale, nelle nostre comunità di fatto, in modo più o meno conscio, c’è una certa rimozione del pensiero dell’ecclesiologia del Vaticano II. Vede anche lei questi due fenomeni come due rischi e due tentazioni?
RISPOSTA
Grazie per questa provocazione. Per quanto riguarda il neoclericalismo: partiamo sempre dalla tentazione di voler creare dei laici come supplenti a quelle che sono le nostre inadeguatezze e le nostre incapacità, invece di invitarli a essere santi e a santificarsi nel mondo, con le realtà temporali. Noi vorremmo laici che ci stanno attorno, che comandano, che ci aiutino a gestire la burocrazia, ma anche tutte le attività della parrocchia: questa è la grande tentazione che noi abbiamo; effettivamente se perdiamo di vista il sogno di Dio, come dicevamo, questo grande mistero, allora noi diventiamo dei manager, che hanno bisogno di manodopera, e allora abbiamo bisogno di catechisti, di operatori pastorali  a cui affidiamo tutte le attività della parrocchia, poi non c’interessa se raggiungono l’obiettivo o meno, però le cose devono andare bene…: l’efficienza è un rischio. La scommessa che ho fatto nella mia parrocchia è che se noi mettiamo le persone a pregare….
Faccio un esempio: io ho iniziato con le catechiste che avevo – l’esperienza delle catechiste è quella più comune nelle nostre parrocchie, perché è più difficile formare gli altri operatori pastorali, è più urgente, invece, avere catechisti per preparare i bambini ai sacramenti -, catechiste generosissime nella loro dedizione, ma cos’è successo? Alcune catechiste che io ho trovato e continuano a stare lì, usano fare il catechismo nella vecchia forma perché hanno l’immagine della loro catechista: lezione, interrogazione ecc. Invece le catechiste che sono andato poi a formare attraverso l’ascolto della Parola, la meditazione, una vita spirituale intensa, hanno incominciato a fare catechismo nelle case, perché hanno qualcosa dentro che devono comunicare; hanno cominciato a fare catechismo con le famiglie, non solo con i ragazzi; quindi è più arricchente, più provocatoria la catechista che va, raduna (intanto i ragazzi sono pochi) un piccolo gruppo, ma soprattutto unisce i genitori, porta i ragazzi nelle case, fa lì l’incontro, coinvolge le mamme e i papà, poi m’invita: io vado, facciamo un piccolo ritiro, un momento di riflessione, in casa: questo nasce da una formazione e da una sensibilità diverse. Io credo che se noi lavoriamo sempre per la crescita spirituale delle persone, possiamo tamponare il rischio di clericalismo che c’è sempre stato, c’è e ci sarà, anche in noi sacerdoti.
A proposito della rimozione del Concilio, si può dire che effettivamente noi non siamo nella pienezza del Concilio. Il Concilio è stato una profezia, la Pentecoste della Chiesa, però non è ancora entrato nel vissuto delle persone. La liturgia non è come quella che il Concilio ha descritto, non ha quella ricchezza di espressione legata alla vita, è stata una riforma frettolosa. Noi abbiamo adeguato alcune strutture, lo spirito del Concilio tuttavia non è stato pienamente attuato, ci vorranno ancora degli anni; la stessa parrocchia fa fatica, non abbiamo oggi una pastorale riconosciuta, perché è ancora in elaborazione; l’ecclesiologia del Concilio non è arrivata nel tessuto delle persone, quindi voi che state studiando adesso sarete in condizioni migliori di  noi, sacerdoti di una certa età, per vivere le espressioni del Concilio. Credo che attualmente non lo stiamo vivendo in pienezza.
DOMANDA
Mi ha colpito molto la meditazione prima della Messa, vorrei chiedere come è nata quest’idea, come l’ha  proposta e come di fatto si realizza e, infine, che risposta c’è, che frutti dà.
RISPOSTA
È nata come una difesa, perché in seminario ero abituato ad avere i miei tempi – in seminario è facile alzarsi prima, andare in cappella, fare meditazione; poi arrivano i seminaristi e ci sono le celebrazioni. Quando invece sono arrivato in parrocchia, vedevo che questi tempi liberi non erano più disponibili, perché le persone sapevano che io stavo in chiesa e venivano a cercarmi, a qualsiasi ora, accorgendosi della disponibilità; succedeva che prima della Messa chiedevano di confessarsi, di “segnare” le Messe,  raccontavano qualche aneddoto o le loro esperienze personali, e quindi costatavo che non riuscivo a riservare per me del tempo; adesso, quando la chiesa è chiusa, nel pomeriggio, io posso stare davanti al tabernacolo, fare l’orazione, la lettura spirituale e quando apro la chiesa verso le sedici, cominciano a venire a trovarti, perché sanno che ci sei, e questo è molto importante: le persone devono sapere che tu stai lì, e se non ci sei, stai nella parrocchia per incontrare altre persone.
Allora ho dovuto difendere questo mio spazio di tempo al mattino e ho cominciato a suggerire a quel gruppo di persone che c’era: che dite, io devo fare la meditazione, vi va di farla insieme? Magari io leggo ad alta voce qualche brano e li ho introdotti a poco a poco, e ho visto che le persone incominciavano a venire e ad ascoltare. Poi ci sono dei periodi, anche durante l’inverno, quando inizia la direzione spirituale e comincia il contatto personale con le persone: non erano più quelle vecchiette abitudinarie, che venivano di mattina per la Messa, ma professioniste come insegnanti, persone che incominciano ad elaborare una fede incarnata nella vita e hanno bisogno, chiedono la meditazione perché li aiuta, li facilita; c’è stato perciò questo passaggio di consapevolezza, dalla fase nella quale non erano mai abituati a fare l’orazione – nessuno aveva mai parlato a loro di meditazione, perché si pensava che fossero cose da preti e da suore – a quella in cui avevano capito che l’orazione era adatta anche ai laici.
Ho cominciato a leggere i libri di Carvajal, “Parlare con Dio”; molti di loro li hanno comprati, mi dicono che fanno meditazione in casa per conto loro: quindi un passaparola. C’è stata una signora che veniva e aveva il cognato parroco; ha cominciato a parlargli di questi libri, poi mi ha detto tutta contenta: adesso anche mio cognato, nella sua parrocchia fa la meditazione al mattino con questi libri, leggendone brani alla gente. È una forma molto semplice; a me dà molta consolazione che le catechiste e gli altri operatori pastorali sono entrati nell’ottica che, per essere oggi operatore pastorale devi prima avere il contatto con il Signore, altrimenti non puoi fare nulla.
DOMANDA
Grazie, don Fernando, anche da parte mia. Ho notato nella relazione riferimenti al sacerdozio come necessariamente incarnato in una persona che deve essere sia uomo di Dio, sia pienamente uomo, un uomo che sa vivere i valori umani, che sa incarnare e esprimere quelle che chiamiamo virtù umane. Mi veniva da pensare come questo potrebbe rimandare a una meditazione sulla vita di Gesù come uomo, oltre che come uomo-Dio, e sarebbe proficuo per la nostra azione pastorale la riscoperta di Gesù capace di fortezza, capace di comprensione, di sincerità, di lealtà, di umiltà. Interessante per l’azione pastorale, per incarnare noi tutto questo. Non sarà importante per il sacerdote avere qualcuno che lo aiuta a maturare anche sotto questo aspetto? Non dovremmo riscoprire l’importanza della direzione spirituale non solo sui valori soprannaturali, che sono fondamentali, ma anche su quelli umani?
RISPOSTA
Dicevamo prima, durante la pausa, che il seminario non prepara – non è una critica al seminario -, ma nessuno esce dal seminario come un prodotto finito, ben preparato. Avete visto anche come nel seminario si fa pochissima esperienza pastorale, e quella della parrocchia è completamente diversa, anzi nemmeno si studia. Si studia teologia, spiritualità però poi c’è la vita. Quando facevo le ultime riflessioni dicevo che il luogo della formazione è il nostro stesso ministero: quell’azione, consapevolezza, libertà significa che ognuno di noi, agendo, prende consapevolezza e sceglie; ed è una spirale che cresce: quanto più agisco con gioia, più prendo consapevolezza, più mi dono e più agisco; quindi qualcosa che continua, noi la chiamiamo la formazione permanente. Se il seminario riesce a darci questa impostazione, c’è la speranza di riuscita, se il seminario lo viviamo come una vigilia, non vediamo l’ora di finire per poi cominciare, si profila un divario tra il seminario e la vita pastorale che è sintomo di insuccesso.
Il seminario allora deve essere un luogo dove si vivono le virtù umane già con lo stare insieme, perché è importante quella vita di fraternità, di comunione, che c’è in seminario, uno spirito di famiglia. Qui nasce purtroppo anche la difficoltà. Vi faccio una confidenza: quando il Vescovo mi ha mandato in Parrocchia, io, che mi ero abituato a vivere da 18 anni sempre con dei confratelli sacerdoti, sentivo il disagio di andare a vivere da solo in parrocchia. Da noi, nel Sud, i preti vivono da soli: non ci sono le canoniche, né i preti vivono insieme, come nel Nord o a Roma, e quindi ho chiesto al Vescovo di vivere possibilmente con altri confratelli e il Vescovo mi garantì che mi avrebbe mandato un altro sacerdote per stare con me,  e mi disse di fare perciò la canonica con quattro posti letto; però non c’è la volontà neanche nei sacerdoti che escono dal seminario di vivere insieme, c’è una fuga, emerge un bisogno di autonomia. Ma oggi, come ci ha detto mons. Betori, non è possibile pensare un prete isolato, oggi bisogna vivere in rete: il rapporto di fraternità con gli altri è importantissimo.
Questo bisogno di fraternità si va a sposare bene con il fenomeno della direzione spirituale, e anche sotto questo aspetto il seminario non ci abitua molto alla direzione spirituale: ci impongono una figura di sacerdote, il padre spirituale, di cui negli anni di seminario non riusciamo a capire il significato e l’importanza, una figura considerata come quella a cui dobbiamo raccontare i problemi  e non come il mio compagno di viaggio, la persona che si mette accanto a me e mi aiuta a camminare, a darmi sicurezza. Nel seminario hai questa figura istituzionale da valorizzare; quando vai in diocesi non trovi più figure istituzionalizzate, indicate come direttori spirituali, allora fai da te e cominci a confessarti con qualcuno – perché noi sacerdoti diocesani ci confrontiamo lavorando tutti in parrocchie, e io so i difetti di un altro confratello, so come porta avanti la parrocchia, e… io devo andare a confessarmi da lui? Quindi cominciamo a fare fatica e a confondere la dimensione pastorale con la dimensione propriamente spirituale; allora c’è il rischio del fai da te e salta di seguito la direzione spirituale; la si ruba attraverso la confessione, quando si riesce a confessarsi; poi si diradano le confessioni e  si perde elasticità spirituale, la delicatezza di cuore e poi le conseguenze le possiamo immaginare.
Io devo ringraziare davvero quello che la Società Sacerdotale della Santa Croce ha fatto per me. Lasciando il seminario ho continuato ad avere rapporti con il mio direttore spirituale, però dovevo fare Lecce-Roma, avevo studiato al Seminario Romano, e per due anni cercavo la figura di un sacerdote che mi potesse aiutare in diocesi, ma non era facile trovare quella figura che rispetta i carismi, e poi da parte mia non avevo ancora maturato l’idea di parlare con chiunque, perciò tornavo in seminario e facevo direzione spirituale con quel sacerdote che mi aveva guidato prima dell’ordinazione. Ma gli appuntamenti si diradavano sempre di più e non potevo andare avanti così, per la confessione trovavo sempre un religioso nella diocesi, ma non trovavo la gioia dentro, mi mancava qualcosa ed ecco perché poi mi sono accostato all’Opera – avevo conosciuto già la Società Sacerdotale della Santa Croce quando ero a Roma –  e grazie ad essa ho cominciato ad intraprendere un rapporto di fraternità, di amicizia e di colloquio fraterno coi sacerdoti della Società Sacerdotale e questo mi ha aiutato moltissimo. Tutte le vicende vissute, il seminario, le difficoltà, i contrasti, il passaggio alla parrocchia…: io, guardando indietro, mi chiedo come è stato possibile vivere tutti questi momenti con grande serenità senza soverchie ansie e ho capito che una grande sicurezza me l’ha data la direzione spirituale, cioè avere avuto la fortuna, ogni settimana, di incontrare un sacerdote, con lui fare un colloquio, raccontare quello che ti succede, quindi scomplicare quelle situazioni che nella vita tendiamo a complicare, stemperare le paure e le ansie, confessarsi.
Ho visto come esperienze difficili di seminario e di parrocchia si superano con grande serenità d’animo, perché c’è un punto di riferimento: la direzione spirituale; quindi, ringrazio il Cielo. Non intendo la direzione come soluzione di problemi, ma il sostegno col quale posso essere più vibrante, posso vivere meglio il rapporto con Gesù, posso vivere la carità con i miei confratelli e il mio Vescovo e quindi ricevere indicazioni che mi aiutano a sperimentarle sul campo.
DOMANDA
Io sto a Trieste. E a Trieste, fino alla I Guerra mondiale, il parroco era un ufficiale civile, teneva il registro delle nascite e delle morti, e serviva anche per il potere civile; da quelle parti l’aspetto burocratico del lavoro di parroco è sempre stato importante e a volte vedo i miei amici che si lamentano di tutto questo daffare che c’entra ben poco con la missione pastorale, d’altro canto è pure un lavoro utile che va svolto. Poi quello che molti mi dicono è che mi considerano beato perché ho molto tempo per dedicarmi alla direzione spirituale; noto anche, però, che molti sacerdoti, pur facendo i parroci lo trovano il tempo da dedicare alla direzione spirituale dei laici, e rilevo che questi sono molto contenti di tutto il tempo che riescono dedicare a questo ministero, perché vedono che fanno crescere le persone che si decidono per il Signore. Questa è una mia considerazione, non so cosa ne può pensare.
RISPOSTA
L’aspetto burocratico purtroppo è assorbente, ma si può ricorrere all’aiuto dei laici. Io sono fortunato perché con il Comune ho fatto una convenzione grazie alla quale è stato distaccato un dipendente comunale per gli archivi storici che mi porta avanti  l’archivio, informatizza tutti i dati e i certificati vengono subito emessi, grazie a una legge della provincia riguardante la rivalutazione degli archivi storici delle chiese comunali. Il problema invece della disponibilità per la direzione spirituale richiede l’eroismo della pazienza. Noi sacerdoti dovremmo davvero scommettere su questo, perché per preparare un’omelia ci vuole poco e si parla a cento o duecento persone, ma scendere in profondità ci vuole tempo; questa è la scommessa: saper coniugare i mezzi di formazione collettiva con i mezzi di formazione personale; se vogliamo raggiungere una qualità diversa del cristiano e se vogliamo che la nostra proposta non passi sulla testa delle persone: come faccio alla domenica a fare l’omelia ? leggo testi altrui, li sintetizzo e li ripropongo alle persone? Non è questa l’omelia; all’omelia afferisce l’ascolto delle persone, la considerazione del loro vissuto: alla luce di questo si mette insieme la Parola del Signore e dai risposte; allora ti accorgi che la gente ti ascolta. Quella pazienza di ascoltare le persone nella direzione spirituale, che diventa eroismo e “perdita di tempo”, poi te lo ritrovi nell’omelia, nel parlare con le persone. “Ma tu ti riferivi a me nell’omelia?” poi ti chiedono: chiaramente le persone si accorgono che tu stai parlando a loro e ti ascoltano.
Tutto sommato la direzione serve anche a noi, a capire l’animo delle persone e poi sono loro stesse che ti arricchiscono con la loro esperienza. Quando dicevo emittente e ricevente… non è vero che siamo solo noi emittenti e la gente ricevente, è vero invece che anche noi siamo riceventi. Dio scrive nella storia delle persone e noi abbiamo bisogno di leggere ciò che il Signore scrive nel loro cuore, e quali ricchezze scopriamo!  A volte, ci fanno dire che le persone che seguiamo sono migliori di noi, per come portano avanti la famiglia, il lavoro, l’apostolato, la faccia tosta che hanno….., anche i ragazzi stessi raccontano cose inimmaginabili. Questo credo che sia la risposta del tempo che noi dedichiamo alla direzione spirituale.

Un pensiero su “LA GENTE VUOLE CHE TU PREGHI PER LORO, CHE ASCOLTI LORO E LA STORIA CHE DIO SCRIVE ATTRAVERSO DI LORO, mons. Fernando Filograna nominato Vescovo di Nardò Gallipoli racconta la sua esperienza di prete”

  1. Giulia dice:

    Il titolo interessante mi ha attirato alla lettura e non ho più pensato che fossero parole per dei seminaristi.
    In effetti le persone che sanno comprendere fanno diventare bella la storia personale degli altri e anche i fatti che succedono ogni giorno.
    Non sono molto esperta ma don Fernando mi ricorda un po' il Curato d'Ars che ha iniziato da zero come se fosse l'incarico più interessante della sua vita.
    Da quello che leggo capisco quanto sia valoroso il cammino della fede nella Chiesa e come lì non sia vincente solo l'avere un programma da seguire a garanzia di quel che si fa, ma inventare dentro di se' cose di sempre è quasi come un segno (…"monastero invisibile").
    E' interessante rileggere che per diffondere un bene occorre averlo assimilato (…"se noi ci confessiamo poco e male, non abbiamo neanche la passione di confessare gli altri"); non è difficile trovare dei riferimenti nella vita comune, a volte inattesi e molto espliciti come per la mamma di una mia amica. Il Parroco le ha chiesto di diventare ministro straordinario dell'Eucarestia una volta al mese per gli anziani e i malati del paese, per la nota cura di quella mamma verso i sofferenti. Così, secondo quanto il Parroco le aveva spiegato, si è trovata nella sua casa l'Eucarestia dalla sera prima, per poter organizzare la giornata successiva di famiglia in famiglia. Le figlie (professioniste) hanno pensato emozionate che dovevano vegliare tutta la notte per rendere l'onore ricevuto.
    Le sono molto grata di aver postato il discorso di don Fernando, in fondo parla di cose molto semplici ma piuttosto vere che rendono capaci di imprese grandi.
    Grazie.

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