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don FLAVIO CAPUCCI, nel ricordo di Francesco Calogero compagno di liceo

Quando il 7 agosto scorso mi lanciai a scrivere a caldo i ricordi di don Flavio che affluivano alla memoria nel giorno della sua morte per me improvvisa, non avrei immaginato che nel giro di pochi giorni più di milleduecento visite avrebbe ricevuto quel post (per le dimensioni limitate di questo diario, sono molte). Incoraggiato anche da questo motivo offro lo scritto che Francesco Calogero ha pubblicato su Studi Cattolici di Settembre 2013: un breve profilo di don Flavio intrecciato con i suoi ricordi. Erano compagni di liceo a Napoli. Riporto il suo articolo, premettendo un particolare che lo riguarda e che lui comprensibilmente omette. Quando Flavio capì che il Signore lo chiamava a dedicargli la vita servendolo come numerario nell’Opus Dei, si disse disposto, ma ancora studente liceale, pensava che la sua decisione potesse concretizzarsi in età adulta. Quando il suo coetaneo Francesco Calogero gli confidò che aveva già chiesto l’ammissione come numerario, Flavio si accorse che avrebbe potuto farlo anche lui senza attendere tanto, e dopo averci riflettuto nella preghiera e chiesto consiglio, così fece. Per chi non lo conoscesse ecco come arrivare al mio post precedente:

http://donandreamardegan.blogspot.it/2013/08/7-agosto-2013-ricordo-di-don-flavio.html

Ho conosciuto Flavio Capucci nel 1962, a Napoli. Eravamo compagni al Liceo classico «Jacopo Sannazzaro», lassù al Vomero, anche se la differenza di Sezione – lui nella A, io nella C – non ci permetteva di interagire molto da vicino. Saremmo restati due «conoscenti» tra i tanti studenti se le nostre energie non fossero state catalizzate da un ambiente in cui si respiravano gli stessi ideali dei nostri coetanei, ma elevati e nobilitati da un’ampia prospettiva cristiana.
Il nostro primo incontro avvenne nel marzo di quell’anno, proprio al Vomero, nella piccola Residenza universitaria Monterone, la cui direzione spirituale era affidata all’Opus Dei. Era un ambiente di libertà e amicizia, vivificato dal desiderio di Dio, che invitava a realizzare personalmente qualcosa per il miglioramento di ciascuno di noi e della società.

Nell’anno scolastico 1963/64 demmo vita, con Flavio e altri compagni, a degli incontri in preparazione all’esame di maturità, nell’aula magna del Sannazzaro, in orario extrascolastico. Quegli «Incontri con i professori» ebbero successo e riuscirono a ridimensionare felicemente la barriera tra docenti e alunni, tradizionale nella scuola di allora. Flavio Capucci, con il suo piglio sicuro ed elegante, fu il presidente del comitato studentesco promotore. Nella pratica dello sport sono sempre stato una schiappa; ma in compenso assistevo, di tanto in tanto (e solo per amicizia, devo ammetterlo), alle partite di basket della squadra giovanile della Partenope, per fare il tifo quando giocavano Flavio e il suo fratello minore, Aldo, anch’egli del Sannazzaro, in uno stadio del Vomero, piccolo ma gremito di scalmanati urlanti. Nell’estate del 1963, inoltre, Flavio e Aldo frequentarono un corso d’inglese in Irlanda, a Dublino, nella residenza Nullamore, anch’essa diretta dall’Opus Dei.
Durante i nostri anni di liceo, a parte tanti eventi consegnati alla storia, avvenne un fatto importantissimo per ciascuno di noi due: la scoperta della nostra vocazione all’Opus Dei, laicale, di cristiani uguali agli altri, ma proprio «vocazione». Fin da subito, per noi rimase chiarissimo il nocciolo del messaggio dell’Opus Dei, ricevuto da san Josemaría Escrivá trentaquattro anni prima, grazie a un’esplicita luce di Dio: la chiamata a santificarsi nel lavoro professionale e nell’adempimento dei propri doveri ordinari, trasformando tutti i momenti e le circostanze della vita in occasioni di amore e di servizio del Signore, della Chiesa e degli altri.
Con la nuova luce di quella chiamata, che ravvivava la vocazione di figli di Dio già contenuta nel Battesimo, orientammo subito le nostre scelte. Per esempio, dopo la maturità ci iscrivemmo a Filosofia, sapendo che la vocazione professionale, come aveva sottolineato san Josemaría, che noi chiamiamo «il Padre», parte integrante della vocazione divina, in quanto àlveo del quotidiano incontro con Cristo.
L’ordinazione sacerdotale
Dal 1965 Flavio, e io dal 1966, fino a 1968, fummo alunni del Collegio Romano della Santa Croce, un’istituzione accademica fondata da san Josemaría Escrivá a Roma, vent’anni prima, e ubicata nella sede centrale dell’Opus Dei, in viale Bruno Buozzi. Quella provvidenziale circostanza ci permise di trascorrere un periodo privilegiato a più stretto contatto con il Padre e di conoscere direttamente da lui tanti aspetti spirituali, storici, ascetici e teologici dell’essenza dell’Opus Dei e approfondirli.
Dal 1968 in poi le nostre strade in qualche modo si separarono o, meglio, seguirono tragitti paralleli, occasionalmente anche convergenti, con cambiamenti di città di residenza e di occupazioni, lauree, soggiorni all’estero, e così via… Flavio, accogliendo l’invito di san Josemaría, aveva deciso di diventare sacerdote, pur senza ritenerlo una specie di coronamento della vocazione laicale, che era stata piena e completa da subito. La sua preparazione filosofica e teologica e quella spirituale gli permettevano un simile passo.
Il 4 agosto 1974 sarà ordinato sacerdote a Barcellona, nella chiesa di Santa Maria di Montalegre, e celebrerà la sua prima Messa solenne – a cui ebbi la gioia di assistere con tantissimi amici comuni – a Milano, nella chiesa di Santa Maria Segreta, il successivo 13 ottobre, alla presenza dei suoi genitori, di Aldo e delle tre sorelle, molto emozionati e felici. Da quel momento il suo percorso è quello del sacerdozio cattolico, vissuto al cento per cento, 24 ore su 24, al servizio in primo luogo dei fedeli dell’Opus Dei, e simultaneamente di tutti quelli che si sarebbero rivolti a lui per ricevere i sacramenti, ascoltare la sua predicazione nella liturgia e in lezioni di teologia e di dottrina cristiana, o per essere orientati personalmente, aprendogli l’intimità del proprio cuore in una prospettiva soprannaturale.
Il 26 giugno 1975 il fondatore dell’Opus Dei rende piamente l’anima a Dio. Si apre per l’Opus Dei la tappa della continuità, cioè della fedeltà al carisma che san Josemaría ha lasciato ai posteri, scolpito in tutti i particolari. Moltissime persone in tutto il mondo (e io fra queste) erano sicure che quella del Padre era la morte di un santo. Ma i santi li può «dichiarare» solo la Chiesa, al termine di un lungo itinerario teologico-giuridico, denominato tecnicamente «Causa di beatificazione e canonizzazione». Il coordinamento del lavoro di raccolta, organizzazione e presentazione alla Santa Sede del materiale probatorio deve essere svolto da un «Postulatore» della Causa, designato tale scopo.
L’incarico fu affidato da mons. Álvaro del Portillo, primo successore di san Josemaría alla guida dell’Opus Dei, a don Flavio, nel febbraio 1978. Da quel momento per 24 anni la vita di don Capucci sarà strettamente intrecciata alle varie fasi previe alla beatificazione (17 maggio 1992), e poi alla canonizzazione (6 ottobre 2002), del fondatore dell’Opus Dei, in piazza San Pietro.
Che cosa ha comportato per lui tale incarico? Senza parlare di se stesso, ne ha offerto, tuttavia, una relazione dettagliata nelle 225 pagine del suo libro Josemaría Escrivá, santo. L’iter della causa di canonizzazione (Edizioni Ares, 2008). In effetti, il protagonista del libro è proprio lui, almeno da un punto di vista pratico, per tutto ciò che ha dovuto leggere, scrivere, fare e far fare per raggiungere tale traguardo. Eppure è riuscito a passare inosservato, nascondendosi, con grande umiltà, dietro l’Ufficio per le cause dei santi, all’interno dell’Opus Dei.
Le sue fatiche, però, non sarebbero terminate il 6 ottobre 2002, quando, alla presenza di circa 500.000 fedeli, Giovanni Paolo inserì Josemaría Escrivá nel novero dei santi della Chiesa universale. Nel 1997, infatti, l’attuale prelato dell’Opus Dei, mons. Javier Echevarría, lo aveva già nominato Postulatore anche della causa di Canonizzazione di mons. Álvaro del Portillo (1914-1994). Non era una sorpresa per nessuno. Ma ciò significava che il lavoro di don Flavio sarebbe continuato come prima e più di prima; senza che venisse meno, peraltro, il suo abituale lavoro pastorale sacerdotale, che aveva cercato sempre di conciliare con quegli altri compiti, apparentemente più brillanti e gratificanti.
Il 5 luglio di quest’anno il Santo Padre Francesco ha firmato il decreto che attribuisce una guarigione miracolosa all’intercessione del Venerabile Servo di Dio mons. Álvaro del Portillo, vescovo, prelato dell’Opus Dei. Don Flavio ha compiuto così l’ultimo passo dell’iter della Causa di don Álvaro, portandola fino alle soglie della beatificazione. 
Perché, Signore?
Dopo il 7 agosto scorso, mi sono chiesto spesso: che cosa mi ha dato di speciale Flavio Capucci, al di là della sua amicizia, della simpatia, del pensiero colto e brillante, dello spiccato senso dello humour, e di tutte le qualità positive di cui era ampiamente dotato, senza farle pesare, assieme, evidentemente, ai difetti che ognuno di noi ha inevitabilmente? Mi ha aiutato, come pochi altri, ad accostarmi alla figura del Padre – san Josemaría Escrivá – con la profondità, l’acume e la ricchezza di registri narrativi che possiede solo chi ha impegnato tutte le proprie energie di mente e di cuore a riconoscere nell’uomo la scintilla della santità. L’enorme lavoro da lui profuso per aiutare a capire ciò che Iddio aveva operato nell’anima del nostro fondatore, e la sua risposta eroicamente incondizionata all’azione divina, era il servizio più alto per far comprendere – per quanto umanamente possibile – la missione per cui il Signore aveva suscitato nella Chiesa l’Opus Dei.
Nel giugno del 1981, in occasione dell’improvvisa scomparsa di un nostro comune amico carissimo, il prof. Emanuele Samek Lodovici, proprio in un articolo su Studi Cattolici, don Flavio si pose una domanda che, riletta oggi, ha un sapore quasi profetico, e che mi sembra il miglior epilogo per queste brevi riflessioni. Scriveva: «Perché, allora, il Signore ha fretta di prendere con Sé coloro che meglio lo possono servire sulla terra? Che coerenza c’è fra il lavoro della grazia nella vita di Emanuele e la sua morte, proprio ora? Il Signore, ancora una volta, ha voluto insegnarci che il mondo lo salva Lui con la Croce, non con le doti o gli sforzi degli uomini. Io prego affinché, qualunque sia la morte con la quale il Signore vorrà chiamarmi, io sappia – come ha fatto Emanuele – morire d’amore». Il corsivo è mio e sono fermamente convinto che la sua preghiera sia stata pienamente esaudita.

        

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