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Olio su tela, Giovanni Battista Merano 1673 |
Ecco la seconda omelia di don Piero Vavassori durante la Novena nel Duomo di Milano, in preparazione alla solennità dell’Immacolata Concezione di Maria. 2 dicembre 2013. Buona lettura.
Cari fratelli e sorelle, il brano del Vangelo che abbiamo appena terminato di ascoltare ci presenta una scena per alcuni versi sorprendente. Chissà con quale desiderio Gesù sarà arrivato fra la sua gente. Inviato da Dio Padre, aveva lasciato la propria casa, la famiglia, il villaggio, i parenti e gli amici, per andare da una parte all’altra di Israele ad annunciare la salvezza. Una missione che Gesù compie con tutte le proprie forze, senza risparmiarsi nulla – sonno, digiuni, freddo e caldo (ci ricordiamo quelle sue parole: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo no ha dove porre il capo” (Lc 9,58)). Gesù si dona con generosità, andando di villaggio in villaggio facendo il bene: guarisce gli ammalati, consola di afflitti, per ognuno ha una parola, un gesto, uno sguardo.
Nessuno gli è indifferente. Se Gesù si dona con tanta generosità con quelli che non conosce, quanto più grande sarà stato il suo desiderio per coloro a cui voleva bene: i suoi parenti, i cugini, gli amici d’infanzia, gli amici di famiglia… Nel percorrere le strade che lo riportavano a Nazaret si sarà immaginato i volti amati da lungo tempo non visti, i saluti, gli abbracci, l’accoglienza, l’allegria di stare nuovamente insieme, le notizie allegre e tristi… E si sarà proposto, come un fuoco d’amore che sgorga dal suo cuore, di aiutare tutti: insegnando e portando la salvezza fra quelle persone amate, guarendo le loro malattie, asciugando ogni lacrima…Possiamo immaginarci, quindi, il dolore che Gesù ha provato nel vedere l’indifferenza e il rifiuto delle persone a cui voleva tanto bene. Risuonano in questa scena le parole del prologo del Vangelo di San Giovanni: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. (…) Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,4-5.11).
Questa esperienza ci riguarda da vicino. Noi, trasformati dal Battesimo in familiari di Dio (cfr Ef 2,19), in suoi amici intimi, in figli di Dio, destinati a un’amicizia intima e tenera con lui, nella nostra vita tante volte lo rifiutiamo. Il nostro peccato non è semplicemente un inciampo nel cammino, un errore d’ortografia, ma il rifiuto dell’Amico che ci offre la sua amicizia, un’amicizia che è vita, che è luce che risplende. C’è il bellissimo salmo 55 che descrive il dolore di Dio di fronte al nostro peccato: “Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa” (Sal 55,13-15). Troppo spesso riduciamo la reazione di Dio di fronte al nostro peccato all’ira: è anche questo, c’è una santa ira di Dio di fronte al peccatore testardo nel suo errore. Ma mi sembra che renda meglio l’idea quest’immagine che ci offre il salmo 55: il dolore di Dio di fronte ai nostri peccati è il dolore dell’amico tradito, dell’amante che vede rifiutato il suo amore, e che vede l’amato – e che continua ad essere amato! – perdersi per strade tenebrose quando lui è la luce e la vita, la felicità piena…
Tempo fa ho letto i ricordi di una figlia dei cui genitori è in corso il processo di canonizzazione. Questa donna racconta come in casa sua fosse abituale la recita del Rosario la sera. Arrivata all’età dell’adolescenza, tuttavia, decise che per affermare la propria indipendenza non avrebbe più recitato il Rosario con i genitori e i fratelli. Quando iniziava la preghiera quindi lei lasciava il soggiorno e se ne andava in camera sua a leggere. Fino a quando, una sera, pochi minuti dopo essersene andata, suo padre entrò in camera sua e le disse, con tono pacato e addolorato: “Come è piccolo, figlia mia, il tuo amore per la Madonna”. Per quella ragazza, queste parole di suo padre e soprattutto il suo sguardo addolorato, furono come una scossa elettrica. In quell’istante, attraverso lo sguardo di suo padre, comprese il dolore che il suo comportamento provocava in Dio. Fu il momento della sua conversione.
Il nostro Arcivescovo il card. Scola ci scrive nella sua lettera pastorale di quest’anno di andare da Gesù per scoprire il suo sguardo sul mondo e sulla nostra vita, per lasciarsi trasformare da questo sguardo e imparare a guardare il mondo e la nostra vita con il suo stesso sguardo. Questo è lo sguardo di Dio sul nostro peccato. Una sguardo di dolore, non di condanna, ma di perdono. Per voi e per me, prego il buon Dio che le parole che papa Francesco sta ripetendo in continuazione, fin dal suo primo Angelus, calino profondamente nella nostra anima: “Fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito..”. Abbiamo bisogno di riscoprire continuamente che il nostro Dio è misericordioso. Ci sono delle parole di papa Francesco che ha pronunciato pochi giorni dopo la sua elezione e che hanno avuto un impatto molto forte nel cuore di molte persone: “Dio non si stanca mai di perdonarci, siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono”. L’esperienza di molti sacerdoti, anche la mia, è che grazie a queste parole molte persone hanno deciso di tornare a confessarsi. Perché la confessione non è il luogo del castigo, dell’umiliazione cattiva, ma dell’incontro con Dio che ama e che manifesta il proprio amore soprattutto nel perdono. Abbiamo bisogno dell’incontro con l’amore misericordioso di Dio e non una volta ogni tanto, ma frequentemente. Perché frequentemente siamo peccatori e costantemente abbiamo bisogno di fare esperienza dell’amore di Dio. Lo stesso papa Francesco ce lo ha detto pochi giorni fa: lui si confessa ogni quindici giorni. Nella confessione facciamo l’esperienza del figliol prodigo che, dopo aver sperperato l’eredità di suo padre, si aspetta di venir accolto con freddezza, e invece viene sorpreso dall’amore del padre: è lì sulla torre ansioso del suo ritorno e appena lo vede all’orizzonte gli corre incontro, lo abbraccia, lo bacia, quasi non lo lascia nemmeno parlare… E all’altro figlio risponde mostrando tutta la propria gioia per il ritorno del fratello: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32).
La confessione però non è solamente il luogo dove incontriamo l’amore misericordioso di Dio per ciascuno di noi. Questa è un’esperienza decisiva nella nostra vita di cristiani, ma ve n’è un’altra altrettanto decisiva. Infatti, c’è nel nostro cuore una domanda che è di capitale importanza: sono capace di amare Dio? Il mio cuore è capace di corrispondere all’amore che Dio ha per me? Nella confessione scopriamo di essere capaci di amare Dio. Perché è solamente alle persone a cui si vuole bene che si sa chiedere perdono. Lì nel confessionale, mentre chiediamo perdono addolorati per i nostri peccati, siamo in ginocchio ai piedi della Croce e stiamo dicendo a Gesù: “Ciò che tu soffri, l’amore che sgorga dal tuo cuore crocefisso, non è vano. La salvezza che ci hai conquistato a così caro prezzo è entrata in questa casa. Gesù, perdono e grazie”.
Ai piedi della Croce siamo insieme a Maria, Madre nostra, Madre dei peccatori. Stretti a Lei, Gesù volge il suo sguardo su di noi. Il suo è uno sguardo pieno di misericordia. Gesù, aiutaci a non allontanarci mai dal tuo sguardo che salva.