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“Non temere, soltanto abbi fede!”. La figlia di Giairo per Gesù non è morta: le prende la mano e cammina. (2ª parte)

                                                                                                                              Mc 5,35-43 
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Stava ancora parlando Gesù con la donna, che arrivano i parenti a dire a Giàiro che la figlia è morta, di non disturbare più il Maestro. Apparente garbo che nasconde l’ assenza di speranza. Nella Scrittura si narra di Elia che fa risorgere il figlio della vedova che lo ospitava, e di Eliseo che distendendosi sul corpo del figlio della Shunnamita, aveva ottenuto da Dio il prodigio di riportarlo alla vita e di restituirlo alla madre, e loro che sono nell’ambiente della sinagoga avrebbero potuto ricordare. E gli amici sapevano che Giairo sperava nell’azione di Gesù, ma scelgono la logica più terrena. Gli portano la brutta notizia e cercano di distoglierlo dall’impresa  Strana amicizia che si impegna a distruggere la speranza. Vogliono coinvolgerlo nel loro realismo. Era sembrato a loro fin dall’inizio una iniziativa poco sensata quella di “ importunare “il Maestro. Ora, alla luce dell’esito fatale della malattia della fanciulla,  lo appare ancora di più. Tutto è finito, è arrivata la morte a concludere le sofferenze della tua figliola. E’ tornata con i nostri padri; ormai è nel mondo dei più. La corruzione del corpo è già cominciata. La stanno sistemando, lavando, rivestendo. Lascia stare il maestro, la morte ha avuto ancora una volta

l’ultima parola. Ma Gesù ha sentito ciò che stavano dicendo. E’ del tutto presente, non gli sfugge nulla, soprattutto ciò che tocca i suoi amici. A Gesù  interessa Giàiro e sua figlia e  interviene per aiutarlo. Gli amici non debbono averla vinta. Per la potenza di Dio, che sia malata o che sia morta, non fa grande differenza. La differenza la può fare la fede di Giàiro, è quindi è molto importante che non venga meno. Gli amici e i parenti possono dire quello che vogliono, Gesù non li rimprovera. Ma incoraggia il capo della sinagoga a non perdere la speranza, a non aver paura delle cattive notizie, neanche della morte perché c’è qui qualcuno che è più potente della morte. C’è l’ Amore stesso di un Dio fatto carne, c’è la Vita diventata persona. Non aver paura Giàiro, abbi solo fede ! Non temere, devi solo credere!   Giàiro ha appena visto la donna che gli ha toccato il mantello ed è  guarita e ha sentito Gesù che le diceva: la tua fede ti ha salvata. Ha un esempio vicinissimo, visto e ascoltato, che lo rincuora nella fede: credo, credo che tu Signore puoi salvare mia figlia, che puoi farla tornare alla vita anche se fosse morta. Gesù ha preparato Giàiro facendo venir fuori dalla folla quella donna, la cui fede era nascosta. Gliel’ha mostrata. Adesso, nel momento difficile, lo incoraggia, non lo abbandona. Non lascia che le forze del male, dello scoraggiamento,  del fatalismo,  lo vincano. Gli sta vicino. Ho sentito Giairo, quello che ti hanno detto:  coraggio, continua a credere. Io non ti abbandono, non cambio idea. Andiamo: oltre a Giàiro che vengano solo  Pietro, Giacomo e Giovanni. Agli altri non lo permette. Vuole rispettare l’ intimità della casa, la riservatezza del dolore, il nascondimento del miracolo, e vuole essere attorniato da pochi sicuri, che credono.

Parenti amici e conoscenti fanno rumore e pianto. Vogliono manifestare il dolore e attraverso lo strepito dire a tutti: la fanciulla è morta e noi sconsolati la piangiamo, piangete con noi. Gesù non si fa condizionare, è determinato e pieno di autorità: perché tutto questo baccano? Se è solo addormentata! Non gli basta aver deciso di operare il miracolo. Vuole dare certezza intorno. Vuole continuare a sostenere Giàiro e la sua fede: Giàiro sento e vedo tutto questo pianto, ma tu abbi fede! Vuole preparare anche negli sconosciuti l’accoglienza del prodigio e sdrammatizzarlo un po’. Per tutta risposta lo deridono. Gesù non ha temuto la derisione e non ha voluto evitarla. Anzi l’ ha provocata, lasciando a loro la possibilità di aprirsi alla fede, alla possibilità del miracolo: nella casa con Giàiro sta entrando quel Gesù di cui tutti  parlano, quel  nuovo profeta che fa miracoli e che opera  guarigioni. Ma quell’insieme di personaggi non cambia atteggiamento. Allora li caccia fuori. Entrano con lui, dov’è la fanciulla, il padre (ormai non conta che sia capo della sinagoga) e la madre di lei. Li manda fuori tutti e trattiene con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, che più avanti lo vedranno trasfigurato sul Tabor e agonizzante nel Getzemani. I genitori: grazie al loro amarsi, alla loro unione, fu concepita, la fanciulla cominciò a esistere piena del dono della vita: è giusto che siano testimoni del suo ritorno alla vita. La stanza è in pace, i genitori sono sconvolti dal dolore. Pietro, Giacomo e Giovanni guardano ascoltano, sanno che se Gesù li ha presi in disparte  è per qualcosa che esce dall’ordinario  La fanciulla è distesa, con la tranquillità un po’ eccessiva della morte, con quel pallore, con  la bellezza dei lineamenti finalmente distesi, e di fatto sembra dormire. Ma non respira. Gesù si è fermato a guardarla, e il gesto che sta per compiere è la sintesi della sua semplicità e della sua umanità. La prende per mano. Con la mano le prende la mano. Mano forte con manina bianca, già un po’ fredda. Le prende la mano. Innumerevoli volte Giuseppe e Maria, quando era bambino, lo hanno preso per mano. Era la mano del padre che dà  sicurezza e protezione, e certezza che c’è un padre che ama e che guida i nostri passi. Non possiamo perderci e se inciampiamo ci solleva con le sue forze perché non cadiamo, perché non ci faccia del male la caduta. Era la mano della mamma sul figlio stanco che dà consolazione e speranza. La mano duttile, la mano agile, strumento geniale della creazione. La mano capace di lavoro e di carezze, la mano con cui si scrive, si dipinge e si scolpisce il marmo. La mano delle impronte uniche e inimitabili, che ci porge il cibo e ci difende dai pericoli. Che è parte di noi e che esprime tutto di noi. La mano di Gesù che prende la mano della fanciulla è anche la mano di Dio sulla quale è scritto il nome di ciascuno di noi: “Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco sulle palme delle mie mani ti ho disegnato” (cfr Is, 49,15-16). E’ la mano che inchiodata sulla croce prende per mano tutti e ci solleva a sé: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”(Gv 12,32). Ci attira sollevandoci dal letto di morte, prendendoci per mano. Ci attira a sé, come fonte della vita, restituendoci la vita perduta. La mano di Dio che protegge, che benedice e che salva. Le prende la mano e le parla. Gesti e parole con i quali Gesù ci salva. Le dice: «Talità kum», il fascino del suono delle stesse parole del Salvatore nella sua lingua materna, non ha più abbandonato i discepoli, che le hanno ascoltate e le hanno ripetute in giro per il mondo ai nuovi battezzati e il Vangelo di Marco le ha conservate, tra le poche tracce di aramaico dei vangeli.  Gesti e parole del Salvatore. Fanciulla alzati! La ragazza lo ascolta subito dice il Vangelo di Marco.  Non ha esitazioni: ha ascoltato la voce che già la chiamò alla vita dal primo istante del suo concepimento. L’ha riconosciuta. Ha ascoltato la voce  di colui che dice di sé: “ io sono la vita “, e ha risposto con la vita. Fanciulla ti dico: alzati, ricomincia a vivere, a camminare, a saltare, a giocare, a cantare. E’ il brano evangelico dei quattro “subito”: subito la donna era stata guarita e subito il Signore si era accorto. “ Subito la fanciulla si alzò e camminava: era infatti di dodici anni.” E’ chiamata alla vita e non ha esitazioni, anzi ha eccitazione: cammina, si muove. “ E subito furono stupefatti di stupore grande “. Gesù sa che in questi casi la voglia è di gridare e di chiamare tutto il vicinato. Ma lui raccomanda molto di non dirlo a nessuno. Non cercava la fama, la popolarità. Sapeva che il popolo non era così pronto a capire il vero senso della sua missione, e voleva portarlo per gradi. Non voleva che lo acclamassero come re. Anche per questo aveva detto: guardate che dorme. E’ molto umano il Redentore dell’ uomo e siccome i genitori potrebbero non accorgersi, nell’ euforia straordinaria della vita ritrovata, che la bimba ha consumato molte energie nella malattia e nella morte, e che le bambine, a volte, a causa delle emozioni tralasciano il cibo, per questo raccomanda loro di darle da mangiare.
Per fede Giairo andò a cercare Gesù che gli guarisse la figlia. Per fede non ascoltò i consigli degli amici senza fede. Per fede fu perseverante nel portarsi Gesù a casa nonostante la notizia della morte della bambina. Della sua fede contagiò la moglie. Grazie anche alla sua fede la bimba riebbe la vita. E le diedero da mangiare cose buone.
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Carmela, l’amore ha vinto la morte

   In punta di piedi entro in un dolore infinito, la morte di Carmela che ha fatto da scudo alla sorella Lucia a Palermo. Leggo parole sagge del parroco ai compagni di scuola. Io, prete, sarei in difficoltà, forse piangerei in silenzio come Gesù pianse sull’amico morto. E tacerei, o direi: non ci sono parole. Ma da lontano provo a dire quello che mi torna in mente. Una ragazza ha dato la vita per salvare quella della sorella. Ha opposto il suo corpo all’assalitore  In pochi istanti ha deciso il destino della sua vita. Mi risuonano le parole del Vangelo: <<Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici>> . E Gesù a quegli stessi amici: <<Dico a voi, amici miei: non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla… Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio…Non abbiate paura: valete più di molti passeri!>>. Come mettere insieme la certezza di non essere dimenticati da Dio mai, di valere più di molti passeri, con quella morte violenta?

   
Paolo scrive ai Romani: <<Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.>> A stento si trova, dice Paolo, e invece Lucia ha trovato subito pronta Carmela. Con la morte di Cristo, Dio dimostra il suo amore. Non salta agli occhi una somiglianza?  Per trovare un senso a fatti che ci sconvolgono, possiamo guardare alla morte salvifica di Cristo e a quella dei martiri che lo hanno seguito? Il 10 ottobre 1982 Giovanni Paolo II entrava sul sagrato di san Pietro con il colore rosso dei martiri, nel giorno della canonizzazione di Massimiliano Maria Kolbe: era stato riconosciuto dalla Chiesa che il suo gesto di dare la sua vita per salvare un altro, era un martirio. Martire della carità. Diceva nell’omelia  <<Da oggi la Chiesa desidera chiamare “santo” un uomo al quale è stato concesso di adempiere in maniera assolutamente letterale le suddette parole del Redentore.…ha rivendicato, nel luogo della morte, il diritto alla vita di un uomo innocente…ha riaffermato così il diritto esclusivo del Creatore alla vita dell’uomo innocente e ha reso testimonianza a Cristo e all’amore  Dando la sua vita per un fratello… si è reso simile a Cristo…>>. Carmela ha dato la vita per salvare Lucia. Noi sacerdoti, che nella Messa preghiamo per lei, possiamo unire il suo sangue versato al calice di Cristo, sull’altare  E chiedere a Dio che il suo sacrificio cooperi con Cristo a riempire questa generazione di Lui e del senso della sua vita. Aiuti a instaurare rapporti d’amore vero, pulito, fecondo. Là, nell’androne della casa, luogo dell’amore, un gesto d’amore vero si è opposto ad un amore falso. Sembra a noi che il vero soccomba nel sangue e invece vince, per sempre. Il nemico del genere umano fu omicida fin dal principio, ma con la croce di Cristo pensava di aver vinto e invece ha perso. La vita, l’amore, hanno vinto la morte.
    don Andrea Mardegan, Avvenire, domenica 4 novembre 2012, Rubrica Sed semper amor.
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“Figlia, la tua fede ti ha salvata”. Papà Giàiro e la donna che perdeva il sangue e tutti i suoi averi.(1ª parte)

Mc 5,21-34
Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Giàiro, uno dei capi della Sinagoga si butta ai piedi di Gesù e gli chiede di andare a casa sua dove la figlia sta per morire, per imporle le mani e guarirla. E Gesù accetta subito l’invito e va.  Ma il cammino verso la casa di Giàiro non è un semplice spostamento. Un altro miracolo avviene lungo la strada, prima che Gesù arrivi nella casa di Giàiro. Avviene in un modo diverso e unico. Una giovane donna da dodici anni soffriva di perdite di sangue frequenti, continue, che la rendevano legalmente impura: non la potevano toccare, né toccare ciò che lei toccava, altrimenti contraevano anche loro quell’impurità, e dovevano lavarsi nell’acqua e lavare le proprie vesti. E aveva speso tutto con i medici ed era solo peggiorata, ma ha sentito parlare di lui e lo considera la sua ultima speranza. Gli si avvicina da dietro per toccargli anche solo il lembo del mantello, per guarire. Crede infatti che Gesù la può guarire. Crede che basti toccare le sue vesti per ricevere  in sé la forza che esce dal corpo di Gesù. Perché il mantello è in continuità con il corpo. Anche perché c’è un sacco di gente e tutti vogliono farsi presenti, farsi benedire, parlare, ascoltare le sue parole, farsi guarire, ma il carattere della donna è schivo, e in quell’epoca le donne non godono di molta considerazione sociale. Per giunta la sua malattia non è di quelle evidenti, non era facile mettersi davanti a Gesù e dirgli: guariscimi perché soffro di questo male. La donna non voleva esporre se stessa e la sua malattia, per la sua dimensione intima, e perché l’avrebbero allontanata, perché considerata impura. Si capisce perché il greco dell’evangelista Marco chiami questa malattia: “flagello”. Tutti questi fattori  la portano a escogitare il suo  piano semplice e geniale. Impensabile senza la fede.  Lo avvicinerò da dietro e gli toccherò il mantello senza che lui o altri

se ne rendano conto. Se riuscirò, sarò guarita dal mio male. Non dovrò più spendere i soldi che non ho più, con i medici, non dovrò più essere allontanata come una lebbrosa, e impedita di essere avvicinata da mio marito. Quante volte in questi dodici anni ho aspettato i sette giorni prescritti per la purificazione dalla Legge sperando che fosse tutto finito, per poi scoprire che avevo perso sangue di nuovo e tutto ricominciava! E pensando così la donna si lancia, si infila, si getta verso di lui che cammina rapido e riesce a toccare il suo mantello. Ed è guarita all’istante e se ne accorge. Un istante di felicità, chiuso in se stessa. Ma anche Gesù si rende conto che una forza è uscita da lui. Il greco del Vangelo di Marco usa le stesse parole per le reazioni  di Gesù e della donna, mettendo in relazione l’immediatezza della loro percezione e la conoscenza razionale di ciò che era avvenuto in loro: l’uscita di una forza che sana, per Gesù, e la guarigione, per la donna. Dice Marco della donna: E subito si prosciugò la fonte del sangue di lei e conobbe nel corpo che era guarita. E di Gesù: E subito Gesù avendo conosciuto in se stesso che da lui era uscita una potenza, essendosi voltato diceva : Chi ha toccato i miei mantelli? Notare questa piena sintonia è importante per quando pensiamo che Gesù non ascolti la nostra preghiera o che sia distratto rispetto al nostro agire, al nostro soffrire, al nostro gioire, al rivolgerci a lui. La corrispondenza è totale e immediata tra ciò che ci accade e quello che lui sa di noi. Subito Gesù comprese. Quando Gesù ferma il suo camminare e dice: chi ha toccato le mie vesti, la donna capisce che si sta riferendo a lei. E si spaventa: che cosa ho fatto? Non si meraviglia che, come lei ha conosciuto l’istantanea guarigione nel suo corpo, anche Gesù abbia conosciuto nel suo corpo che un contatto di guarigione era avvenuto. Piuttosto pensa: come ho fatto a non immaginarmelo prima! I discepoli, frettolosi, un po’ superficiali, tendenti alla critica, anche verso il Maestro, e sciolti di lingua gli dicono: tutti ti stringono e ti domandi chi mi ha toccato? Ma Gesù sa che uno solo è stato il contatto che ha guarito e non è stato uno stringere, o una spinta, è stato un braccio teso a sfiorare il mantello, per cercare il contatto di salvezza con il suo corpo. Infatti Gesù non ha detto chi mi ha toccato,  ma: chi ha toccato le mie vesti ? E dicendo così svela la conoscenza anche della precisa azione compiuta dalla donna. I discepoli non hanno colto la differenza. Gesù non bada a loro, non si attarda a spiegare, capiranno dopo, e si guarda intorno: gli interessa incontrare quella donna. Per lei, il suo messaggio è chiarissimo: anche se non ha detto pubblicamente: ” ho sentito che è uscita una forza dal mio corpo “ oppure: “ so che da una tra voi mi ha toccato le vesti ed è guarita”, anche se Gesù mantiene il riserbo, il suo messaggio, pur essendo pubblico, è rivolto solo a lei: è personale ed è come sempre anche riservato. Ti conosco, le fa capire Gesù, so del tuo male, e che mi hai toccato le vesti, che sei guarita e che adesso anche tu sai che io so. Cristo vuole conoscere con  i suoi occhi incarnati e ascoltare con il suo udito da figlio dell’Uomo, imporre le sue mani d’uomo, quelle mani che hanno lavorato, baciate da sua madre, a quella  donna che ha appena guarito; non vuole accontentarsi della sua conoscenza divina. Vuole aiutarla a non avere paura di Lui, di se stessa, della sua malattia, della società, della sua fede, del miracolo che è avvenuto in lei. Gesù si guarda intorno, cerca lo sguardo della donna, la vuole aiutare a uscire allo scoperto, la vuole incoraggiare. La donna capisce che tutto è chiaro alla mente del Figlio dell’Uomo ed esce impaurita e tremante allo scoperto. Lei sa di essere impura  secondo la legge del Levitico (15,25 sg), e sa che chiunque la tocca viene reso impuro per la legge di Mosè  ecco perché voleva guarire ma non voleva rendere impuro Gesù, per questo gli ha toccato solo il mantello, sperava di farlo senza che lui se ne accorgesse, approfittando della folla, non voleva renderlo impuro! Gesù vuole farle sapere che non c’è più il problema dell’ impurità, che non deve aspettare giorni e giorni. E’ tutto a posto, è una donna normale come le altre, non deve più nascondersi, non deve più avere paura. La donna esce dalla folla, dall’anonimato, dal nascondimento. E’ tutta impaurita e tremante perché teme che le si rinfacci la sua malattia come colpa o come frutto di una colpa, teme che il Maestro la rimproveri per la sua audacia, per la trasgressione della legge. Teme di essere rimproverata e punita. Ha paura del giudizio degli uomini. Ma la voce di Gesù le dà coraggio. Esce dalla folla e scorge il suo sguardo. Uno sguardo di infinito amore, di conoscenza eterna. Nessuno mai l’ha guardata così. Scossa dalle emozioni si fa avanti e si getta a terra davanti a lui. Dice il Vangelo: e gli disse tutta la verità. Era ciò che Gesù voleva: insegnarle a non aver paura della verità con lui che è la verità in persona, verità che libera. Voleva che fosse sicura per sempre, al riparo da qualunque scrupolo successivo, che non aveva fatto nulla di male, che il suo gesto non rendeva impuro nessuno, che non avrebbe mai dovuto pentirsi di ciò che aveva fatto, che era bene che tutti sapessero, che non doveva vergognarsi del suo male, che non era colpa sua. Che non aveva rubato la guarigione: che lui stesso gliel’aveva conferita e ora gliela ribadiva con solennità davanti a tutto il mondo e per sempre. Non avrebbe dovuto più temere che il suo flagello si ripresentasse. E che il merito era anche suo: grazie alla sua fede. Com’è contento Gesù della sua fede! Si ferma, anche se la figlia di Giàiro sta morendo. E’ conquistato dalla sua fede. E’ affascinato dalla sua audacia mescolata con la sua paura, e vuole premiare l’audacia e far scomparire per sempre la paura, nella certezza del suo amore infinito. Non può quindi perdere l’occasione di aiutarla,  di farsi conoscere. Gesù non teme di lodare la sua fede perché sa che la verità rende liberi.  Anche per questo la vuole mettere in evidenza, come un esempio per quelli che lo seguono e per tutti i destinatari del Vangelo: guardate anche voi questa donna! Imparate da lei: abbiate fede e cercate di toccarmi con la stessa fede! Grazie alla sua fede è stata guarita e ora ha diritto a tornare nella sua casa, restituita alla normalità della sua vita, liberata dalla schiavitù dell’emarginazione, dal peso di cure inutili e costose. Piena della pace interiore che l’incontro con Cristo dona. Gesù non ha lasciato il miracolo a metà e dopo aver guarito il suo corpo, conoscendo il peso sul cuore della donna ha voluto orientare in modo stabile la sua anima. Con il gesto di farla uscire dall’anonimato della folla le ha dato molti benefici. La possibilità di conoscerlo di persona. Di confidarsi con lui. La comprensione della dimensione naturale e non morale della sua malattia. Il coraggio di proclamare di fronte agli altri le grandi opere di Dio. Il conoscersi come donna di fede e il riacquistare fiducia in sé stessa. La pace nel cuore e la buona fama restituita. Un  nuovo inserimento nel suo ambiente della società.  Il divenire testimone oculare di un miracolo di Gesù e della sua misericordia, del suo sguardo alla ricerca della pecora perduta, della sua attenzione e del suo amore per ogni persona. Del suo voler incontrare personalmente ciascuno, per sollevarlo, consolarlo, salvarlo.


Per fede la donna che perdeva sangue da dodici anni si avvicinò a Gesù. Per fede volle toccare il suo mantello per esserne guarita. Per fede fu guarita dal suo male. Per fede uscì tremante dalla folla. Per fede si gettò ai piedi di Gesù e gli disse tutta la verità. Per fede fu salvata. Per fede raccontò nella chiesa la dinamica del suo incontro con Gesù.
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“Credo; aiuta la mia incredulità!”. Il papà di un ragazzo posseduto da uno spirito muto.

Mc,9,14 -29
E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi.
Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera».
Pietro, Giacomo e Giovanni scendono dal monte della Trasfigurazione con Gesù. Sono ancora scioccati e affascinati dalla visione del cielo e dall’ annuncio della voce nella nube che diceva: questo è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo. Anche dal misterioso accenno alla resurrezione dai morti e da altre cose che Gesù diceva loro mentre scendevano dal monte e che non riuscivano a capire. Tornano dagli altri discepoli, che li avevano aspettati alle pendici del monte. Mosè quando scese dal monte con le tavole della legge trovò i suoi con il vitello d’oro. Non c’è un vitello d’oro questa volta, ma un problema si è comunque creato: una discussione tra gli altri discepoli di Gesù, gli scribi e la folla attorno a loro.
Gesù e i tre si avvicinano e chi lo scorge per primo è proprio la folla, che si meraviglia del suo apparire e noi ci meravigliamo che sia la folla e non gli scribi e non i discepoli ad accorgersi che lui arriva: sono troppo accalorati dalla discussione. E la folla corre verso di lui: finalmente sei giunto! Mentre i discepoli e gli scribi continuano a battagliare. Gesù, che si interessa sempre ed è maestro nel fare le domande che aiutano a mettere  in luce il problema, chiede: di che cosa state discutendo con i miei discepoli e con gli scribi? Il papà del fanciullo non ha paura di uscire allo scoperto, ma
non risponde alla domanda di Gesù, spiega l’antefatto, va al dunque, a ciò che gli sta a cuore. Ti ho portato mio figlio che è posseduto e maltrattato da uno spirito muto, ho chiesto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti! Forse discepoli e scribi si sono messi a discutere sulla natura di quella malattia, sulle possibilità di scacciare demoni, sulle caratteristiche e qualità che deve avere chi scaccia i demoni, a chi toccherebbe per primo provare, sulla procedura, e così via. Quando non riusciamo a compiere il bene, o quando è difficile, tendiamo a discutere. La reazione di Gesù è forte e un po’ sorprende. O generazione incredula! Vede nell’episodio una mancanza di fede tale da mettere in dubbio l’ efficacia di tutta la sua missione: fino a quando starò con voi? O forse possiamo vedere in quelle parole l’ impazienza di arrivare quanto prima al decisivo momento del suo sacrificio sulla croce, senza il quale questa generazione e tutte le altre si dibatteranno sempre nella incredulità, nell’assenza di risorse soprannaturali, nella privazione della grazia divina: fino a quando dovrò sopportarvi? Veramente pare proprio che per Gesù questa discesa dal monte sia un’esperienza simile a quella di Mosè. Anche questo popolo, questa generazione che lo attende, manca di fede. Non costruisce idoli, ma li coltiva dentro di sé. Anche tu Gesù nella tua umanità soffri del contrasto tra la conversazione di cielo sul Tabor e la nebbia della poca fede nella pianura? Parla al plurale: starò con voi, dovrò sopportarvi. Quindi nota in tutti la mancanza di fede: nei suoi discepoli, che non sono riusciti a scacciare quel demonio. Negli scribi che li criticano, nel padre del ragazzo, che riferisce i fatti con animo malevolo nei confronti dei discepoli, e ha una visione un po’magica del potere di Gesù, e bada solo al suo scopo in modo egoistico, senza disponibilità alla conversione personale. Nella folla che è presa solo dalla curiosità di vedere come va a finire,  chi vince nella contesa pubblica. Avrebbero dovuto tutti pregare molto, pregare di più, fare propositi di conversione, chiedersi: perché mai i demoni vengono con tanta facilità ad abitare in mezzo a noi?
Gesù, ha parlato con Mosè sul monte,  e sceso in pianura, come nuovo Mosè, scuote il suo popolo per farlo uscire dall’ idolatria profonda. Ha visto nuovi vitelli d’oro. Grettezza, visione solo terrena, contese, superficialità, uso orgoglioso del potere spirituale, resistenza alla conversione. Dopo tutto quello che hanno visto e sentito da lui: generazione incredula! Dove noi avremmo visto, tutto sommato, la buona volontà dell’ uomo e la disponibilità della folla, e l’impegno dei discepoli, Gesù vede invece mancanza di fede. Dunque é possibile che ci sia mancanza di fede anche quando ci affanniamo per fare opere buone: per  liberare i posseduti dal demonio.
Ma è anche consolante il comportamento del Signore, perché ci fa ammirare una parte della sua umanità: quella che si stanca, che si adira giustamente, che si meraviglia per la mancanza di fede, per la durezza dell’animo umano. Nell’ invettiva l’ obiettivo di Gesù è molteplice: tutti coloro che hanno dimostrato mancanza di fede, anche le generazioni future che leggeranno quest’ episodio nel Vangelo. Anche noi ci sentiamo raggiunti dalle sue parole. Ma l’ utilizzo della seconda persona plurale – fino a quando vi sopporterò –  ha anche il vantaggio di raggiungere il padre del ragazzo in modo meno contundente che se avesse parlato in seconda persona singolare: o un uomo incredulo, fino a quando ti sopporterò? Come si vede dallo scorrere dell’ episodio, dall’ inquadratura che dalla folla si sposta di nuovo sul primo piano del volto del padre del fanciullo, comprendiamo che lui in particolare era un destinatario privilegiato dalle parole di Gesù. Il messaggio che c’era qualcosa che non andava nel cuore di tutta quella generazione gli è arrivato, con il conforto di non essere il solo, di non essere additato come la causa unica dei mali che affliggono il figlio. Da quelle parole il padre comprende anche che  non sono solo i poveri discepoli a non essere all’altezza, e che cacciare uno spirito muto e sordo non è solo un fatto di capacità tecnica, di arte lavorativa. E quando il padre già temeva che non se ne facesse nulla, che il Maestro avrebbe opposto il gran rifiuto, Gesù lo sorprende ancora una volta: portatemelo qua! Perché non agisce secondo una logica umana, una logica di merito. Non lo comandano i suoi stati d’animo. E’ venuto a salvare ciò che era perduto.
E glielo conducono, ma basta solo la vicinanza fisica con il corpo di Cristo  tutto santo e pieno della grazia divina, che lo spirito immondo scuote il ragazzo e lo getta a terra. Di fronte allo sgomento del padre, Gesù incomincia un dialogo personale: entra nella conoscenza della storia del problema. Lo fa parlare. Come fa un buon medico per fare la diagnosi esatta e per dare la medicina giusta. Gli interessa il ragazzo, e suo padre, e tutta la loro storia. Si fa carico di tutti quegli anni. Della sofferenza  inferta al ragazzo e alla sua famiglia. Non è una cosa da poco la liberazione che Cristo è venuto a  portarci. La vittoria sugli inferi. Lo spirito muto lo butta nel fuoco e nell’ acqua per ucciderlo: nemico del genere umano e omicida fin dal principio. Il padre supplica e nella sua supplica dice bene: aiutaci, abbi pietà di noi. Non altrettanto bene quando premette: se tu puoi. Si vede che non è sicuro, non è forte la sua fede, è stato deluso dai discepoli. E’ forte però la sua sofferenza e il suo amore paterno. Gesù gli risponde in modo singolare, con un’ espressione che letteralmente suonerebbe così: ” Il se tu puoi!”. Come a sottolineare che quella frase non è precisa, non è completa. Il suo animo di papà è ancora carente, gli manca qualcosa. E di nuovo, come sempre fa il Cristo, non lo umilia pubblicamente ma lo rilancia a cercare il superamento, il miglioramento di sé. Avrebbe potuto rimproverarlo ancora per la sua mancanza di fede, oppure fargli una lezione di cristologia: come sarebbe a dire, se tu puoi? Il suo intervento invece è da buon pastore, che conosce le sue pecore ad una ad una, e le chiama per nome a seguirlo, a entrare nell’ ovile, a uscire con lui per verdi pascoli. E gira verso l’ interlocutore la possibilità del potere tutto, non la rivendica orgogliosamente per sé. Sei tu che puoi liberare tuo figlio dal demonio, se credi, perché tutto è possibile a colui che crede! Ecco la conclusione dell’invettiva precedente, ecco cosa il padre può avere che mancava in tutti i protagonisti precedenti: la fede vera! Il crescendo del rapporto tra Gesù e il papà del fanciullo è stato: invettiva su tutta la generazione; poi comunque disponibilità ad esaminare il caso; interessamento affettuoso e caricamento delle difficoltà soggettive e oggettive nel dialogo personale e infine la richiesta di crescere nella fede, con ottimismo totale. Il papà del fanciullo risponde con una delle più belle preghiere di tutto il Vangelo. Con intuizione geniale comprende che può tutto, e allo stesso tempo che non può da solo. Esprime in una breve frase la mescolanza della fede e dell’incredulità; il chiaroscuro della fede, la volontà di credere e l’incertezza sulla qualità della propria fede, la certezza che la fede è dono.
Grida, dice il Vangelo, grida il papà la sua preghiera: credo, ma aiuta la mia incredulità! Gesù lo sta già facendo; il papà esprime ad alta voce quello che sta già avvenendo. In quel momento accorre la folla. Quindi li avevano lasciati soli, forse si erano allontanati per un dialogo personale che non fosse indiscreto,  e il grido del papà  richiama la folla. La manifestazione della fede attrae. Gesù davanti a tutti ordina minacciosamente allo spirito, muto e sordo, non solo d’ uscire, ma di non rientrare più  in quel ragazzo. Non è cosa leggera per un demonio obbedire a Dio e lasciare in vita la preda della sua invidia,  così per vendetta la sua rabbia si riversa sulla povera creatura, tanto che la folla pensa che il ragazzo sia morto. Gesù invece, come spesso fa per manifestare la tenerezza di colui che dà la vita, che è il padre di tutti, lo prende per mano e lo solleva, come continua a fare con noi quando ci salva dal male, quando ci libera, quando ci perdona. I discepoli gli chiedono, più tardi, in casa, luogo di confidenze familiari, come mai loro non sono riusciti a scacciarlo. Questo tipo di demoni solo con le preghiere, spiega Gesù, si possono scacciare. E’ quello che ha fatto il papà del ragazzo, ha pregato con tutta la fede che poteva. E Gesù ha scacciato. Li scaccia Gesù con la nostra preghiera. E il ragazzo ha ricominciato a parlare, ad ascoltare e a capire, a crescere in vere relazioni d’ amore con i suoi e con la gente. E non dimenticherà più quella stretta di mano calda e forte, del Dio fatto uomo, che lo ha sollevato da terra, che gli ha ridonato la vita.

 Per mancanza di fede e di preghiera nella fede  i discepoli e gli scribi non riuscivano a scacciare quel demonio muto dal ragazzo. Per fede incerta e crescente il padre affida suo figlio  a Gesù. Per fede più sicura e affidata gli dice : Credo; aiuta la mia incredulità.
O Dio che ci hai inviato il tuo Figlio a svelare il tuo volto e ad arricchire le fede in te con la pienezza della rivelazione, donaci di ricorrere a te per mezzo di lui, come il papà del ragazzo reso muto da uno spirito maligno, ogni volta che sentiamo il bisogno del tuo aiuto o che sentiamo la debolezza della nostra fede.


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Un funzionario del re, che aveva un figlio malato

Gv 4, 46-53
Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia.
Ero considerato un uomo di fiducia del tetrarca di Galilea, Erode Antipa, che veniva anche chiamato re. Abitavo a Cafarnao, città doganale. Il mio bambino si era ammalato e a nulla potevano i medici e le medicine. La convinzione, tipica degli uomini del mio rango di potere ottenere tutto con il potere terreno, mi  svanì di colpo. E spuntò l’angoscia, che non avevo mai provato prima. Nella disperazione che cresceva mi tornò alla mente quel Gesù di Nazaret, che aveva cominciato proprio nella mia città ad operare miracoli e a predicare. Insieme agli altri funzionari addetti all’ordine pubblico, eravamo ben informati dei fatti che riguardavano questo rabbi dallo stile nuovo, autore di prodigi mai visti. Sapevamo che le folle lo seguivano, ed erano tanti quelli che dicevano di essere stati guariti da lui con un gesto della

mano, con una parola. Tenevamo d’occhio i suoi spostamenti, eravamo informati bene. Trasmettevamo puntualmente ad Erode ogni notizia su di lui.

Per ragioni d’ordine pubblico sapevo che il rabbi, dalla Giudea, passando per la Samaria, era tornato in Galilea, per la precisione a Cana di Galilea, dove, si diceva avesse compiuto uno dei primi prodigi. Aveva mutato l’acqua in vino! Presi la decisione di raggiungerlo, questa volta non per controllare quello che diceva o faceva ma per chiedergli di scendere fino a casa mia,  di tornare a Cafarnao per il mio bambino, per guarirlo. Mentre percorrevamo i trentatré chilometri che separano Cafarnao da Cana di Galilea, le mie guardie del corpo mi riferivano quello che avevano sentito narrare di lui e dei suoi gesti, della sua dottrina. Ero allora un giovane funzionario, efficiente, abituato a comandare e molto determinato. Eppure la prospettiva dell’imminente morte del mio figlio più piccolo mi atterriva. Il dolore di quell’ innocente mi turbava come nessun altra vicenda dolorosa o tragica che avessi dovuto seguire da vicino a motivo del mio lavoro. Non volevo che lo capissero i miei sottoposti , temevo di perdere autorità. Ma lo capivano. E io in quella strada in salita, nei lunghi silenzi del cammino assolato,  forse cominciavo a intuire qualcosa di più di quel dolore indicibile, a cui in passato avevo preferito non pensare, di quelle madri e di quei padri che trent’anni prima erano stati crudelmente privati della vita dei loro bambini per ordine di Erode, nella Giudea, per non si sa quale folle ossessione del re, che si immaginò che tra quei bambini potesse esserci chi l’avrebbe scalzato dal trono. Ironia della sorte morì pochi anni dopo, e si diceva che fosse tormentato da incubi e rimorsi. Questi pensieri angosciosi si alternavano accompagnati dal mio respiro affannato per lo sforzo del camminare in salita, all’’immaginarmi quegli altri episodi che mi raccontavano del Maestro. Avevo sentito dire che questo Nazareno prende per mano la persona malata, e così facendo le restituisce forza e vita. Ecco, chiedo solo questo, ma lo desidero con tutto me stesso: voglio che il mio bambino viva, che torni ai suoi giochi. Così gli dirò, pensavo, e lo dicevo ai miei compagni. Così quando lo incontrammo e non fu difficile, tutti sapevano dov’era, e c’era folla sempre attorno a lui, gli dissi subito quello che volevo, forte della mia autorità, del mio ruolo, e anche un po’ dell’impressione di potenza che davano quelli che mi accompagnavano. Maestro, scendi con me a Cafarnao, così puoi vedere il bimbo, toccarlo e dirgli quelle parole che fanno guarire. Non mi accorsi che stavo trattando Gesù come un guaritore qualunque anche se dei migliori finora apparsi nelle nostre strade, come uno che ha poteri speciali nelle mani, come un suddito a cui comandare. Il mio ragionamento era: io sono funzionario del re, tu devi venire con me e guarire mio figlio! A ripensarci dopo mi accorsi che sulle guarigioni avvenute a Cafarnao, avevo reagito con il tipico scetticismo dei funzionari del mio palazzo. A noi interessava che non avvenissero disordini, che non si inquietassero i romani, che la suddivisione del potere continuasse ad essere com’era, senza scossoni e cambiamenti. Per il resto giudicavamo quelle voci, le grida, quegli assembramenti come frutto di isteria collettiva, di ipnosi generalizzata, di fanatismo. La gente cercava cose nuove per evadere dalle difficoltà della vita, pensavamo. Quando fui colpito dalla malattia senza possibile cura di mio figlio, tutta quella sicurezza vacillò. Mi trovai improvvisamente dalla parte delle folle, abbandonate e bisognose di prodigi. Fra me e me ragionavo così: avrò la possibilità di conoscerlo. Alcuni dicono di lui: è il Messia che deve venire! L’Altissimo ha visitato il suo popolo! Chissà se c’è qualcosa di vero. Chissà se potrà fare qualcosa per mio figlio, il resto non mi importa: che cosa posso saperne io di queste dispute su un rabbi! Che mi lascino in pace e credano quello che vogliono. Con questo atteggiamento arrivai da Gesù, e per questo mi rivolsi a lui come guardandolo dall’alto al basso, come chi sa che può comandare,  e siccome ti lascio libero di predicare e di guarire, potrò anche comandare dove e chi guarire! Ma quando Gesù mi rispose: “se voi non vedete segni e prodigi, voi non credete!”, compresi, per dono divino, che quelle parole erano in primo luogo dirette a me. Rimasi molto sorpreso, tutto mi sarei aspettato ma non quella frase! Provai la percezione sicura, che non so bene spiegare, che quel maestro conosceva il mio animo come un libro aperto. Ancora di più, perché quelle parole del Nazareno ebbero l’effetto di chiarire a me, funzionario del re, lo stato esatto della mia anima nei confronti di Dio: mi svelarono con una chiarezza meridiana il mio scetticismo misto a credulità nei confronti di quello che fino a quel momento avevo definito come il “guaritore di Nazareth”. Come è possibile, mi chiedo ancora oggi, che poche parole siano così chiarificanti? E così penetranti come una spada a doppio taglio? Ero di quelli che conoscevano il valore delle parole e le sapevo usare: sapevo con quali parole bisognava riferire a Erode, e quali parole usare per comandare e motivare i miei uomini. Ma di fronte a quelle parole rimasi senza parole: è proprio vero: non ho visto nessun miracolo, e forse per questo non ho creduto mai fino in fondo ai prodigi di Cafarnao. E’ vero: ho sentito dire di qualcosa di origine divina che potrebbe esserci nelle parole e nei gesti di quest’ uomo, ma, è vero!, ho scacciato questo pensiero. Lui ha colto, ha letto nel mio cuore, ha capito  che lo volevo mettere alla prova, addirittura, è vero, volevo sopra ogni cosa che mio figlio guarisse, ma pensavo anche di sfruttare la malattia di figlio mio per vedere se davvero costui del quale tanto si parla era in grado di guarirlo, come avrebbe fatto e con quale arte. Pregustavo già due vittorie: mio figlio che vive e una splendida figura con Erode al quale avrei raccontato tutto per filo e per segno, appagando quella sua curiosità di cose strane e prodigiose. E il Maestro tutto questo lo ha capito con uno sguardo, anzi prima ancora che io aprissi bocca. E con le sue parole mi volevo dire che perché avvenisse ciò che desideravo avrei dovuto credere in lui di più, già fin d’ora, senza metterlo alla prova, senza più quell’ombra di doppiezza! Tutto con poche parole e guardandomi dritto negli occhi! Ho fatto l’esperienza delle sue parole che salvano. Ha parlato al plurale,  forse in quel voi voleva mettere i miei colleghi di palazzo e forse buona parte del nostro popolo, le autorità. Ma io sapevo che quelle parole erano rivolte a me. Non ha voluto umiliarmi davanti ai miei uomini! Se mi avesse detto: se tu non vedi prodigi e miracoli, non credi, mi avrebbe tolto autorità, e avrebbe svelato il mio problema. Il suo sguardo fu per me inequivocabile. Allora compresi che di fronte a me c’era qualcuno che era molto più grande di me, che veramente avrebbe potuto guarire mio figlio e accettai sinceramente che ci fosse in lui qualcosa che veniva dall’alto. Credetti, senza avere visto. Credetti a quello che mi avevano raccontato. Credetti in lui. Dentro di me sentii la forza e l’attrazione di un cambiamento di vita che toccava tante mie azioni e pensieri, di una conversione verso le cose del cielo. Tornerò ad essere credente, pensai, ad esprimere la mia devozione, anche pubblicamente, nella sinagoga di Cafarnao. La gente saprà che prego, che credo. Per questo la mia voce, nella mia risposta, uscì a forza, commossa. Parevano le parole di prima, come se fosse un’insistenza cocciuta, ebbi invece la certezza, come prima, che il Maestro avesse letto nel mio cuore un cambiamento. Capì che non era più la stessa richiesta, anche se le parole erano molto simili. Non so come ma mi venne di chiamarlo così: Signore! Signore, scendi prima che muoia il mio bambino! Ma volevo dire: Signore adesso credo in te anche prima di vederti compiere un prodigio, ho purificato il mio cuore davanti a te e davanti a Dio, mi prostro e ti supplico, riconosco che tu vieni da Dio e che Dio è con te. Mi pento del mio peccato di lontananza, di indifferenza, di incredulità, di supponenza. Mi rendo conto della mia indigenza: non posso nulla, ma desidero più di tutto che il mio bambino non muoia. Che non sia vittima del mio peccato! Scendi a Cafarnao con me, prima che sia troppo tardi, ti prego! E il Signore che mi aveva sorpreso con la prima risposta, mi sorprese anche con la seconda: “vai, tuo figlio vive!”.  Aveva capito il mio cambiamento, ma aveva risposto in modo diverso da come speravo. A quel punto io ministro del re, uomo di palazzo, personaggio conosciuto pubblicamente, ebbi la possibilità di mostrare con i fatti e pubblicamente, ciò che Gesù aveva compreso essere avvenuto nel mio intimo come reazione alle sue parole chiare di correzione: se non vedete non credete! Gesù volle compiere il suo miracolo  a distanza, e io ebbi la possibilità di credere che l’avrebbe fatto, senza poter vedere, e far vedere che avevo creduto. Prima ancora di guarire mio figlio, quelle parole produssero, o confermarono in me il miracolo di una fede nuova. Il prodigio di passar sopra come alla cosa più giusta, al fatto che per la prima volta un suddito del re non mi obbediva: lo volle guarire a distanza, non pensò di venire con me a Cafarnao. Credetti che lui poteva guariro anche così. Smisi di insistere, si illuminò il mio volto di speranza. Mi inchinai in un profondo ringraziamento, come si fa davanti al re quando ci si congeda. E lì c’era più di un re. E mi incamminai sulla via del ritorno.  I passi avevano il ritmo della fretta di riabbracciare mio figlio risanato.  Le parole di Gesù avevano avuto per me una risonanza particolare: va’, tuo figlio vive! Non “è guarito” ma vive! E ancora una volta il tono e lo sguardo del Signore, e la forza con cui risuonavano dentro di me le sue parole, avevano reso facile il credervi; più facile ancora. Nel silenzio concitato del camminare verso casa ripensavo continuamente all’incontro avuto, alla conversione che era avvenuta quasi istantaneamente in me. Era come se il malato fossi stato io e, toccato nell’anima, da incredulo ero diventato credente. Avevo perso in un istante quell’ idea del Gesù di Nazareth come un eccentrico saltimbanco, un pranoterapeuta un po’ eccezionale; per questo mi era sembrato d’un tratto senza problema, come la cosa più logica, che potesse guarire a distanza, con la sua volontà, il suo pensiero. Uno che legge nell’anima e cura l’anima, potrà curare il corpo di mio figlio, pur da lontano.
Che sciocco a volerlo costringere ad una lunga camminata, di due giorni! Ma devo dire che con il passare delle ore, il tramontare della luce, il dolore delle gambe poco abituate alle lunghe distanze in poco tempo, avvezze più che altro alla sedentarietà del palazzo, ebbene, ogni tanto si affacciava, con l’immagine del figlio morente che avevo lasciato a Cafarnao, anche il timore, il dubbio: sarà proprio vero che è vivo, che è guarito?  Non sono stato troppo precipitoso nel fidarmi delle sue parole, non avrei forse dovuto insistere ancora un po’? Anche qualche mio accompagnatore mi istigava: se fosse venuto con noi, saremmo più sicuri; forse potevamo usare modi più convincenti! Ci fermammo a pernottare in una locanda, e non fu un sonno tranquillo. Gesù e il bambino mi si presentavano continuamente nei sogni. Immaginavo Gesù nella mia casa che gli prendeva la mano, ma poi il sogno di confondeva e non capivo se il bambino era vivo. La luce della speranza lottava con le tenebre del dubbio, con l’angoscia della morte, con il vuoto dell’abbandono. Mi svegliai incerto e provato, e con una grande voglia, mista a paura, di  arrivare presto a casa.  In quel mattino il mio passo era ancora più rapido, faticavano a starmi dietro. A tratti mi sembrava certezza ciò che Gesù mi aveva detto: avrei riabbracciato mio figlio vivo! In altri momenti si riaffacciava l’inquietudine.
Quando intravidi in lontananza i miei  servi che correvano verso di me, perché mi avevano riconosciuto, il cuore prese a battere all’impazzata come a volermi scoppiare in gola e la tensione crebbe altissima. Tuo figlio vive! Gridarono concitati. Alzai gli occhi al cielo e ringraziai l’Altissimo, caddi in ginocchio e ringraziai l’Onnipotente. Quando, ditemi quando ha cominciato a stare meglio? All’ora settima, ieri. Un’ora dopo mezzogiorno. Proprio l’ora nella quale il Signore Gesù mi ha detto: tuo figlio vive!
La fede in Gesù, in tutto ciò che avrebbe fatto e detto da quel momento in poi, divenne in me solida e incrollabile e la contagiai a tutta la famiglia con la quale condivisi l’avventura, gli stati d’animo, le luci e le ombre, la grazia e la tentazione, ogni particolare del mio incontro con Gesù.. La mia famiglia intera seguì poi passo dopo passo i detti e i fatti di Gesù, divennero tutti discepoli del Maestro e tramandammo nelle generazioni questa nostra storia.
Per un fede incerta e confusa il funzionario del re si recò da Gesù a chiedergli di andare nella sua città  nella sua casa e guarire il figlio. L’incontro con Gesù produsse una fede più forte in lui.
Per fede tornò a Cafarnao senza Gesù, credendo che il figlio fosse guarito. La guarigione del figlio venuta dalle parole di Gesù e dalla  sua fede, produssero in lui un aumento della fede, che si comunicò a tutta la famiglia.
O Dio che concedesti al funzionario del re Erode di ottenere dalla parola di Gesù la grazia della guarigione di suo  figlio e della conversione sua e di tutta la famiglia, concedi anche a noi di credere alle parole del  tuo Figlio Gesù e di invocarlo con fede  in ogni nostra necessità.

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“Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”. Storia di tre silenzi di Gesù, e di una grande lode.

(Mt 15, 21-28; cfr Mc 7,24-30)

Partito di là, si recò nella zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea che veniva da quella regione, si mise a gridare: “Pietà di me Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli si avvicinarono e lo implorarono: “Esaudiscila perché ci viene dietro gridando!” Egli rispose: Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele.” Ma quella si avvicinò e si prostrò  dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!” Ed egli rispose: non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini” “E’ vero Signore – disse la donna – eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Allora Gesù le replicò: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri” E da quell’istante la figlia fu guarita.


La donna è una cananea,  appartiene ad una popolazione pagana, da sempre tenuta lontano dal popolo d’Israele per non essere contaminato dalla loro mancanza di fede nell’unico Dio e dalla loro credenza negli idoli. Il problema della donna appare subito nella sua chiarezza drammatica: sua figlia è tormentata da un demonio. Questo è ciò che la angoscia: è un problema di salvezza soprannaturale, con i  rimedi naturali non si può fare nulla. La potrà aiutare quel Gesù di Nazareth che scaccia i demoni: la voce del suo potere sui demoni è corsa fino da loro a Tiro e a Sidone. Lo scopo per cui si è messa in viaggio è subito evidente: cercava il figlio di Davide,  perché potesse guarire sua figlia. Chiama Gesù così: figlio di Davide, e manifesta di credere che lui è il Messia atteso da Israele. Non ha nessun dubbio che il Maestro possa liberare la figlia dal demonio che la tormenta,  alle informazioni ricevute aveva aderito in

cuor suo, non aveva dubitato. A la sua prima immediata richiesta, Gesù non le dice una parola. La donna forse considerava la liberazione della figlia, come un gesto che sarebbe successo in modo quasi automatico, bastava fornire il dato al figlio di Davide che è venuto per questo, e lui sarebbe intervenuto con una parola che libera, che salva, anche a distanza. Ma la prima risposta del Signore, che è il primo silenzio, cambia in lei la fretta concitata di trovare il maestro e dirgli la situazione, in un  dolore più consapevole e in una angoscia più profonda: non è bastato trovarlo! Mi sta sfuggendo! Non sia mai che non mi ascolti! Tutti questi sentimenti si riversano nelle sue grida ancora più forti. Non cede alla tentazione di pensare che non potrà avere il miracolo,  mette tutte le sue forze fisiche ed emotive per ottenere ciò che vuole: grida con tutte le sue forze.  Persevera nella preghiera. Grida a squarciagola, non avere riguardo, alza la voce come il corno (Is 58,1), diceva Dio al profeta Isaia. Lo dice anche al suo cuore e lei lo fa. Non ha altre armi. Gesù ancora tace e continua a camminare. Secondo silenzio del Maestro.  I discepoli che hanno visto altri esorcismi del loro Rabbi, sanno che lui può, non capiscono perché tira dritto, seguono un ragionamento molto pratico del rumore da togliere, del fastidio da eliminare, del problema da risolvere, in fondo che cosa ti costa, tu che puoi, esaudiscila! Questo dà coraggio alla madre. Stanno intercedendo per lei. Il Figlio di Davide si volge a spiegare ai suoi discepoli il motivo che riguarda la scansione dei tempi nel progetto di salvezza di Dio, spiega loro perché non le sta dando retta: sono stato mandato alle pecore perdute della casa d’Israele! Lei ne approfitta per sgusciare dalla custodia dei discepoli e balzare davanti a lui: si getta ai suoi piedi obbligandolo a fermarsi. Nella preghiera di Israele si dice: “questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce (Sal 34,7) e anche che Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto, avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri.(Sal 72,12-13).  La risposta del Signore ai suoi discepoli, terzo silenzio con lei, ha operato un altro cambiamento nel suo animo: non è più solo la madre disperata che urla perché la figlia venga salvata, è una donna che corre davanti a Gesù e si prostra ai suoi piedi, mostrandosi come una figlia che implora un favore dal padre che può tutto. Vuole il contatto a tu per tu. Si mette lei in gioco: adesso sono io, come una figlia, che ho bisogno di te. Guarda anche me come pecora perduta, sono ferita, voglio che tu mi prenda sulle spalle e mi riporti all’ovile. Che ti prendi cura di me. E’ cambiato lo stile di preghiera, è diventata più personale, non parla ora della figlia ma di sé: Signore, aiutami!  Sono io che ho bisogno di aiuto. Sono io che soffro terribilmente perché vedo mia figlia in quello stato, maltrattata da un demonio. Aiutami. Con i discepoli Gesù aveva utilizzato un’immagine biblica e un argomento teologico, a lei dice lo stesso argomento ma con una diversa immagine, più comprensibile a lei, anche se molto dura: il pane è per i figli, come tu, madre, sai e ne hai esperienza e riservi il pane buono per loro, ai cagnolini dai gli avanzi. Ora nei tempi della storia della salvezza i figli sono le pecore perdute d’Israele, tu invece, cananea, sei tra i cagnolini, anime lontane ancora non raggiunte dalla Parola di Dio e dalla sua salvezza, non è per te, ancora, quel pane. Anche se hai conosciuto che ho fatto tante guarigioni tra i figli, non ci sono le condizioni perché lo faccia anche per te. Questa seconda parola del Signore, la prima rivolta direttamente a lei,  provoca un ulteriore cambiamento nella sua anima. Le ha detto: non sei ancora figlia, sei come un cagnolino. Pur essendo dura quella parola, lei non ne discute la verità, la accetta umilmente: è vero quello che dici. Ma rilancia, obbietta con un’altra verità colta dall’esperienza della sua vita, e inconfutabile: i cagnolini vengono e prendono le briciole che cadono. Se mio figlio gli dà del pane lo rimprovero, ma se i cagnolini vengono a lambire le briciole che cadono dalla tavola non dico niente, va bene così. A me basta una briciola che cade dalla tua tavola, non voglio considerarmi per questo figlia a tutti gli effetti, va bene anche lo status di cagnolina, basta che mi sia fatto ciò che voglio. Dammi solo qualche briciola di quello che dai ai tuoi figli.

Gesù l’ha messa alla prova, lei ha resistito, non ha perso, ha rafforzato la fede, non ha dubitato dell’amore di Cristo per lei anche se era nascosto così bene. E Gesù ne è ammirato. Ha voluto, conoscendola bene, che  manifestasse a tutti la sua fede, la tenacia della preghiera, l’umiltà, la sua acutezza di argomentazione, la sua disponibilità a cambiare dentro di sé atteggiamento, a crescere ad ogni parola del Salvatore: dalla sola fede con richiesta, alla perseveranza del chiedere, al rapporto personale, all’umiltà di riconoscere il suo stato di non appartenente al popolo d’Israele. Anche l’affetto per la figlia e la forza della sua volontà l’hanno resa capace di reggere e vincere nel dialogo con il Maestro: a nessuno nel Vangelo è stato dato questo privilegio come a lei, tutti hanno dovuto riconoscere che la sapienza del Cristo era somma, nelle discussioni gli altri hanno sempre perduto, se ne sono andati sconfitti, illuminati e vinti dalla sua verità. Questa donna invece ha vinto il dibattito dialettico con la Parola di Verità. Gesù l’ha sfidata e le ha dato l’occasione di vincere, ha esaltato la sua virtù. Le ha concesso un privilegio senza pari, incoraggiando così tutte le donne e gli uomini della storia a ingaggiare la preghiera come lotta con Dio, come nell’esperienza di Giacobbe (Gen 32, 25-32). Come gara, come gioco d’amore che si può vincere. E la cananea ha vinto: Grande è la tua fede! Sia fatto per te come desideri. Per questo potrà entrare nel popolo dei figli di Dio perché ha lottato con Dio e ha vinto, come Giacobbe. Il tuo desiderio è diventato comando per Dio,  perché tu credi, perché tu vuoi, perché tu preghi con grida e con tenacia, perché tu non vieni meno di fronte alla difficoltà, avvenga dunque per te, quello che desideri.


Per fede la madre cananea si mise in cerca del Figlio di Davide, per fede gli chiese di liberare sua figlia dal demonio, per fede insistette urlando, per fede si gettò ai suoi piedi implorando aiuto, per fede chiese anche solo l’affetto che un padrone ha per il suo cagnolino, per fede ottenne la guarigione della figlia.
O Dio che hai mandato tuo Figlio ha instaurare il tuo Regno, a scacciare i demoni, ad offrire la salvezza a tutti i popoli concedi anche a noi che te lo chiediamo, la fede grande della cananea che meritò l’elogio del tuo Figlio. Per Cristo nostro Signore.

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“Credete che io possa fare questo?”. I due ciechi di Cafarnao in casa di Gesù.

(Mt 9, 27-31)
Mentre Gesù si allontanava di là, due ciechi lo seguirono gridando: “Figlio di Davide, abbi pietà di noi!”. Entrato in casa i ciechi gli si avvicinarono e Gesù disse loro: “credete che io possa fare questo?”. Gli risposero: “Si, o Signore!””. Allora toccò loro gli occhi e disse: “Avvenga per voi secondo la vostra fede”. E si aprirono loro gli occhi. Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”. Ma essi, appena usciti, ne diffusero la notizia in tutta quella regione.

Secondo Matteo Gesù, dopo aver lasciato Nazareth, prende dimora a Cafarnao. Qui guarisce un lebbroso, il servo del centurione, la suocera di Pietro, un paralitico calato dal tetto, la donna che perde sangue e fa rivivere la figlia di Giairo. Dopo aver narrato tutto questo e altro che avviene a Cafarnao,  il vangelo di Matteo introduce i due ciechi. Lo seguono per strada urlando. Non vedendo devono avere la certezza che li sente, che non sfugge a loro, con il grido sono riusciti a superare un po’ la menomazione della vista. Gesù li fa arrivare a casa sua, li fa entrare. Per così dire li fa accomodare. Li ospita. Li fa sentire accolti e non maltrattati o tenuti lontano a causa della loro malattia. Il miracolo che seguirà ha la bella unicità, nel Vangelo, di essere compiuto nella casa di Gesù, proprio dove lui abita, nel suo soggiorno potremmo dire. Gesù preferisce in questo caso offrire un’ intimità, placarli con

l’ospitalità,  non dare pubblicità al miracolo e potere interagire con loro su questioni personali necessarie. Vuole  interpellarli sulla loro fede. Fa loro una domanda per la quale è meglio che non ci siano spettatori. La risposta deve essere autentica e sincera. Così mette in evidenza ai ciechi e ai suoi discepoli che la dimensione del credere è condizione necessaria al conseguimento della grazia. I due si fanno compagnia, si aiutano, si sostengono. Probabilmente si sono a vicenda incoraggiati a cercare Gesù di Nazareth e a chiedergli la loro guarigione. Si sono alimentati a vicenda nella fede in lui. Insieme si sono affacciati, insieme Gesù li fa entrare a casa sua, insieme li interroga. Credete che io possa fare questo? La fede deve essere esplicita in lui. Si, o Signore. La risposta è senza incertezze. Insieme li guarisce. Nelle parole che Gesù pronuncia fa capire che la loro fede  è protagonista  importante della loro stessa guarigione: avvenga per voi secondo la vostra fede. E’ importante per Gesù perché lo è per noi esplicitare la fede: credo, crediamo, Signore! Con la fede siamo protagonisti, collaboratori di ciò che desideriamo e chiediamo a Dio. Collaboratori di Dio. E tocca i loro occhi. Questo tocco significa che comunque, al di là della loro fede,  è lui che opera. Non avrebbero potuto vedere, ad esempio, il gesto del guardare in alto del Signore, o un gesto di preghiera silenziosa, o un atto di benedizione da distante: hanno bisogno di sentire il tocco della sua mano sui loro occhi per ricordare per sempre che la guarigione di quegli occhi avvenne grazie alla loro fede, ma anche alle parole di Gesù e al suo tocco: è la sua umanità, la sua carne piena di Dio che è veicolo di salvezza. Poiché sono ciechi, Gesù parla e tocca. Così ricorderanno per sempre. E corsero a mostrare e a raccontare la loro guarigione, com’era avvenuta, in tutta la regione.

Per fede i due ciechi di Cafarnao seguirono Gesù urlando; per fede entrarono nella sua Casa, per fede risposero: crediamo! Per la lor fede recuperarono la vista.
O Dio che ci hai indicato con Gesù la via, che è Lui, da seguire, fa che attraverso la virtù della fede lo troviamo sulle strade della nostra vita, e abbiamo il coraggio di entrare nella sua casa e riceviamo da Lui un aumento di luce e la capacità di vederla e diffonderla intorno a noi.

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“Seguimi”. Matteo al banco degli esattori.

Matteo 9,9-13
Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Quante volte sono tornato a riflettere sul disegno misterioso di Dio nei miei confronti, ripensando  a quel giorno e a quell’ora del mio primo incontro personale con il Rabbi. Fu nello stesso momento in cui mi chiamò a seguirlo. Molti mi domandarono poi se accadde così a tutti, o perlomeno a tutti noi dodici. Non fu proprio così con tutti, ma comunque avvenne sempre in modo rapido. Non c’era molto tempo. La sua ora –noi non lo sapevamo in quel tempo- era vicina. Dovevano trascorrere tre anni, intensissimi e sconvolgenti, affascinanti e rivoluzionanti, ma erano solo tre anni.
Certo, alcuni di noi  prima dell’incontro con Cristo avevano maturato un’inquietudine, un desiderio di conoscenza, di servizio di Dio, di dare un significato alto alla vita. Dio prepara per tempo coloro che devono essere del tutto suoi, disponibili ad ogni cosa. Fu tutto così rapido, così lucente. Mi piaceva andare contro i luoghi comuni e mi stava stretta quella proibizione di occuparsi delle tasse. Mi sembrava giusto collaborare con gli occupanti per evitare mali peggiori. E non mi andava il moralismo di chi vedeva peccato dappertutto. Piuttosto erano altre le cose che si agitavano dentro di me: la convinzione che tutto quello non bastasse. Essere a posto con il lavoro e sicuro del

futuro, anche se dovevo guardarmi le spalle dai fanatici religiosi, ecco, tutto ciò non mi sembrava sufficiente. Anche l’ essere a posto con la coscienza: ero convinto di non fare nulla di sbagliato, anche se molti mi guardavano male. Pensavo che il popolo d’Israele stesse percorrendo una fase storica, sarebbe passata, come tante altre. Dovevamo avere pazienza e non infastidire gli occupanti. Eppure tutto questo non mi bastava, non poteva essere l’ unico scopo e l’unico significato della mia vita. Sognavo avventure di salvezza più alte. Sognavo un amore più grande. Un amore più grande urgeva nel mio animo ma non sapevo cos’era. Quei giorni di Cafarnao portarono alle mie orecchie, gli echi di parole e gesti di Gesù di Nazaret. Al telonio ne parlavano i colleghi e i tassati; i militari ci chiedevano  notizie.  Intuivo che forse qualcosa di grande stava accadendo al mio popolo; forse ciò che aveva detto il Profeta Isaia: Terra di Zabulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce. [1]Eppure tutto ciò non è sufficiente a spiegare la chiarezza, la convinzione, la certezza che mi invase dentro al vederlo e al sentirlo chiamarmi per nome, all’ imperativo che mi rivolse: seguimi! Non avrei mai deciso da solo di unirmi a lui, né si confaceva  al mio modo di essere che fosse un amico a presentarmi. Avevo bisogno di sentire quelle parole direttamente da lui. Mio padre Alfeo era uomo saggio e aspettava la manifestazione del regno di Dio. Ci aveva educati a pregare perché avvenisse quanto prima. Ero andato a sentire Giovanni e le sue parole forti e rudi. Mi ero lasciato battezzare da lui per chiedere a Dio perdono dei peccati. Ma tra i peccati non ritenevo che ci fosse il mio lavoro. Anche le parole di Giovanni che orientavano tutti a fare il bene nel proprio lavoro, senza lasciare il proprio posto, mi confortavano nella stessa direzione. E pur sapendo di essere oggetto di critiche da parte di molti continuavo a ritenere più giusto rimanere lì al mio banco da esattore. Se io me ne fossi andato, altri senza scrupoli sarebbero potuti venire. Io cercavo invece di mediare, di far sì che le richieste si adeguassero il più possibile alla reale situazione di ciascuno. Poiché non rubavo, i miei superiori si fidavano di me e mi lasciavano ampio margine di manovra. Andai ad ascoltare anche Gesù in quei primi giorni di Cafarnao, non avevo dimenticato  quella profezia di Giovanni: dopo di me viene uno che è più potente di me e io non sono degno neanche di portargli i sandali. Lo sentii parlare, lo vidi compiere guarigioni. E’ lui! Ero proprio convinto in cuor mio, che fosse proprio lui l’ unto del Signore, il Messia. Stare ad ascoltarlo ti dava la forza di seguirlo dovunque fosse andato, anche in capo al mondo. Rimanevo però nelle retrovie, un po’ nascosto, per non dare nell’occhio e poi tornare rapido al mio posto di lavoro per non suscitare sospetti o recriminazioni. Fra me e me ero incerto e pensavo: uno come me non potrà mai fare parte del gruppo dei suoi. Sarebbe per lui squalificante. La gente perderebbe fiducia in lui, soprattutto i nemici dei romani. E poi chissà se è  proprio vero che sono a posto con la coscienza, se questo lavoro non è inviso agli occhi di Dio? Per questo non mi sarei mai aspettato quell’ incontro, non lo avrei mai neppure potuto sognare. Ma allo stesso tempo è come se lo avessi da sempre desiderato. Ripensandoci: come ha fatto bene tutte le cose, il figlio di Dio! Chiamandomi così, davanti ai compagni di lavoro, al mio banco di esattore ha risposto alle mie più profonde aspettative, ha dissipato i miei dubbi, ha confermato che  quel lavoro andava bene, anzi mi aveva preparato all’incontro con lui. Mai, lungo i tre anni successivi mi ha rimproverato per quel lavoro che facevo, nessuna parola contro di esso. Piuttosto quante parole e gesti contro i farisei e gli scribi che dicevano male di me e del mio lavoro! Era da anni che sognavo l’ amore. Fin da bambino. Me lo immaginavo naturalmente con il volto di una donna, con la fecondità esultante del nostro amore. Eppure nella maturità della giovinezza, gli incontri, le conoscenze, le frequentazioni con una fanciulla e con un’altra, mi lasciavano la percezione che non mi bastava, non riuscivo a capire perché, ma era come se fosse troppo poco per le richieste del mio cuore, l’orizzonte di una sola creatura. Nonostante ciò volevo loro molto bene. Ma poi scattava il bisogno di andare oltre, sentivo una spinta interiore a non fermarmi lì, a non piantare la tenda, a non ingannarle con una promessa che non corrispondeva al mio cuore. In quel giorno, in quell’ istante, in quell’ incontro di luce, con quell’unica parola accompagnata da quel suo sguardo che era uno sguardo personale di chi ti conosce e che ti ama da sempre, in quel momento di sobbalzo del cuore, tutti i pensieri sono giunti alla loro meta, tutti i sentimenti alla loro casa. Allora era questo! Era per questo. L’educazione di Alfeo, i discorsi di Giovanni e il suo battesimo, i sogni d’ amore mai realizzati, le battaglie per continuare a fare il bene nel lavoro così malvisto e odiato da molti. In quell’ istante si incontrò la terra con il cielo nel cuore che si dilatava e cominciava a volare. Gli anni avvenire confermarono l’intuito del momento.

Soprattutto i giorni dopo la Risurrezione e le prime esperienze della chiesa, e le terre lontane dell’ oriente. Nei tre anni di compagnia con Gesù, tutti gli insegnamenti della gioventù si illuminavano, ogni cosa che nella scrittura era aperta a tante possibili interpretazioni, trovava compimento.
Mi bussava sempre più frequentemente nell’animo la spinta a scrivere per ricordare, per tramandare, per spiegare ai  miei fratelli nella fede che Gesù Cristo, il figlio di Davide, figlio di Abramo, nato da Maria, sposa di Giuseppe, per opera dello Spirito Santo è il vero figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza.
Avevo in mente quegli amici e quei colleghi, brava gente per lo più, amici di famiglia, colleghi di lavoro, compagni di gioventù. Quegli amici di cui parlai subito a Gesù quel giorno al banco degli esattori: io ti seguirò ovunque tu vada, ma lascia che ti inviti nella mia casa e chiami tutti gli amici a conoscerti, e i parenti e i conoscenti. E Gesù fu subito d’accordo. Fu una grande festa. Gesù era di grande compagnia, si accorgeva  di tutto, a ciascuno diceva ciò di cui aveva bisogno.  Si rideva anche molto insieme a lui. Allegria solo un po’ velata da quelle critiche e mormorazioni.
Ma poi ciò che Gesù rispose ai farisei  fu ripetuto per le strade e per i villaggi, e molti lo intesero così: non ci sono giusti, tutti siamo peccatori e tutti siamo chiamati da lui alla penitenza e alla santità della vita. Chi si sente giusto o vorrebbe esserlo, senza mai peccato e segue la via dei farisei, è uomo sfortunato che si elimina dalla chiamata di Gesù il Cristo.
Cosa contava la mia amarezza per quello sgarbo durante il pranzo di festa in casa mia di fronte alla luce che  era venuta per tante persone dalle parole di Gesù?
Quando scrivevo i miei appunti e ricordi sulla buona novella di Cristo pensavo a loro, ai miei amici di Cafarnao che avevano mangiato e bevuto proprio con lui il giorno della mia chiamata. E che non avevano avuto la mia fortuna di seguirlo giorno dopo giorno e non erano stati testimoni della sua morte in croce e della sua Resurrezione. Loro avevano bisogno, avevano diritto alla mia testimonianza. Potevo intuire che quello scritto sarebbe arrivato in mano ad altri, a molti. Ma mai avrei potuto pensare che lungo i secoli sarei stato ricordato come il primo evangelista della  Chiesa. Anche perché avevo fatto di tutto per non apparire, per lasciare tutto lo spazio a lui e alla sua parola.
Non avevo potuto tacere quel giorno e quella chiamata, certo come ero, già allora, pur ignaro della memoria futura, che il “ seguimi “ di Cristo per chi lo ascolta e lo accoglie apre una vita di sacrificio e di avventure che superano sempre i sogni più audaci, che colmano sempre le più elevate aspettative umane. Il suono della sua voce, il suo sguardo e quelle parole mi hanno accompagnato lungo la vita, mi hanno sostenuto nei momenti bui, mi hanno lanciato verso nuovi confini, quando considerazioni di prudenza umana mi avrebbero trattenuto. In tutto mi fu sempre accanto come madre, Maria, sua madre, che fin dal principio mi accolse come un figlio.
Per fede Matteo seguì Gesù che lo chiamava. Per fede ne informò gli amici; per fede perseverò fino alla fine.
Dio nostro Padre che inviandoci il tuo Figlio Gesù, nato da donna, ci hai chiamato a seguirlo da vicino nelle vicende della nostra vita quotidiana, donaci la fede che hai dato a Matteo, perché anche noi possiamo ascoltare la sua parola, riconoscerlo e seguirlo. Per Cristo nostro Signore.


[1]Mt 4,15-16

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Il lebbroso coraggioso

                   (Mt 8, 1-4)

Scese dal monte e molta folla lo seguì.  Ed ecco si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: ”Signore, se vuoi, puoi purificarmi!”. Tese la mano, e lo toccò dicendo: “Lo voglio: sii purificato!” E subito la sua lebbra fu guarita. Poi Gesù gli disse: “Guardati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece, a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosé come testimonianza per loro.”

I lebbrosi dovevano stare in disparte e non farsi avvicinare da nessuno. Se qualcuno toccava un lebbroso contraeva la sua stessa impurità. Immondo, immondo! dovevano gridare per tenere lontana la gente dal contagio. Il lebbroso del Vangelo è incoraggiato da quello che ha visto e udito. Gesù ha guarito tanti, ha scacciato demoni. Si lancia ai suoi piedi, lo chiama Signore, (Adonai, il nome che si dà a Dio). Conquista il cuore di Gesù. Doveva stare lontano, ma voleva  farsi guarire e sapeva che Gesù poteva farlo, se solo avesse voluto. Si lancia, incurante dei limiti imposti dalla legge, non per disprezzo della legge ma per la ricerca del bene. Con la sua libertà interiore conquista Gesù. Davanti alla folla: non gli importa che cosa diranno. Non contesta, accetta la considerazione sociale e religiosa che davano i contemporanei alla sua malattia: tu Signore, mi puoi purificare, gli dice,  perché questa malattia mi rende, per la legge mosaica, impuro. Con questa accettazione conquista il cuore di Gesù. Con la sua audacia, mossa dalla fede, che lo porta ad avvicinarsi a Gesù. Perché lo chiama Signore, per la sua fede. Perché mette in evidenza la sua libera volontà piena di potenza: se tu vuoi! Perché manifesta la certezza: tu lo puoi! Si entusiasma Gesù che è toccato nell’intimo: certo che lo voglio e lo

dico ad alta voce: lo voglio! Sii purificato dalla lebbra! E Gesù nel dire questo lo tocca. Così all’audacia del lebbroso, Gesù risponde con la sua audacia, alla libertà del lebbroso con la libertà di Dio. Tu vieni qui per farti guarire e chiedi misericordia pur dovendo stare lontano. Io che non dovrei toccarti per non diventare impuro invece ti tocco per renderti puro. Avrei potuto guarirti con un atto della volontà che non si vede, oppure con una preghiera e lo sguardo rivolto al cielo; con un battere di palpebre, o tendendo la mano verso di te o dicendoti di andarti a lavare lontano o con la sola parola comandando alla lebbra di fuggire: sparisci  o lebbra dalle membra di quest’uomo! Invece ho voluto toccarti per dirti che non temo il tuo male, che l’amore è più forte della paura, che il mio corpo è strumento di salvezza, che la legge va custodita finché non è contro l’uomo e il suo bene. Ti tocco come la madre accarezza il suo bambino, così dico per sempre la lode di Dio alla tua schiettezza, la stima per la tua dignità che nessuna malattia potrà mai togliere a nessuna creatura umana.  Gesù ricorda al lebbroso guarito all’istante, il rispetto della legge di Mosé: vai dal sacerdote e offri  quanto prescritto per chi guarisce dalla lebbra. Gesù ha lodato e approvato la sua libertà dalla legge nel modo di raggiungere il bene, ma adesso rispettare quanto prescritto da Mosé porterà dei beni: ringraziare Dio del dono ricevuto, i sacerdoti che si rendono conto che Dio sta operando guarigioni, e si preparano ad essere un giorno, come sacerdoti di Cristo, coloro che purificano direttamente dalla lebbra del peccato prestando a Cristo la voce e le mani con cui benedicono.

Per fede il lebbroso si avvicinò a Gesù; per fede ebbe l’audacia di chiedere di guarirlo; per fede si presentò ai sacerdoti guarito e presentò l’offerta prescritta da Mosé.
Dio nostro Padre che hai inviato nella carne il tuo Figlio Gesù al mondo per purificarci dai nostri veri peccati e liberarci dalla schiavitù della legge, donaci il coraggio e l’audacia del lebbroso, per avvicinarci senza paura al tuo Figlio e ricevere da Lui misericordia e salvezza.